Pagina:Novelle lombarde.djvu/211

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zando le ciuffa la moneta, e si dà a ridere a scroscio, e beffarla, e saltabellare, e intonar una canzonaccia. In quella suona la campanella che richiama le filatore al lavoro: la Laurina, asciugandosi gli occhi e dimenando il capo, si avvia di gran passo là, dove certo il soprantendente la rimbrotterà di questo ritardo; e il marito suo gongolando si difila alla méscita del vino, e accolto fra i benvenuto d’altri beoni che giocano alla mora, sbatte con trionfo la moneta sul deschetto dell’ostiere, e — Qua un orcioletto della vostra sciacquatura di bicchieri».

Sin dalla fanciullezza cominciò quel tentennone a piacersi del far nulla; e in questa inclinazione lo secondò il cieco amore della madre. Suo babbo voleva avviarlo a lavorare la campagna come lui, ma non ne poteva trarre costrutto; e la madre gli diceva: — Non vedete com’è pochino? non ha quelle spallacce digrossate coll’ascia, quelle manacce che avete voi, da fare la talpa e zappare la terra. Avreste a volerlo accoppare il poverino».

Il padre, per amor di pace, lo mise sotto un ferrajo: ma anche qui bisogna adoperar la schiena, e a colui il far nulla era una sanità. Dunque da capo a mutare; lo allogarono con un sartore; ma neppur questo basto non gli entrando, egli salava di spesso la bottega per andar a gironi, gingillar sulle piazze, foraggiare pei campi, tendere varchetti alle lepri, alleggerire i peschi e i tralci. Suo padre si rodeva il cuore, lo rimproverava, lo batteva perfino; ma la madre, — Poveraccio, tu se’ magro spento! Mala cosa! ti rintichiscono in quella bottega: hai bisogno d’un po’ di svago. Tè»; e gli