Pagina:Novelle lombarde.djvu/286

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Fra questi e simili discorsi fatto notte, sopraggiungono vispe, leste le più giovani, e dietro ad esse i garzoni, moscheggiando, barzellettando, soffiando sulle mani aggranchite ed esclamando: — Oh che freddo». Allora così al bujo, è un via vai, un passerajo di cento voci che una soverchia l’altra, una l’altra interrompe; onde se tu volessi trovarne il filo, oh va raccapezzare quel che si ciancia sur un mercato. Dispongono quindi i trespoli e gli scanelli, e cominciano ad acchiocciarsi, a quetarsi. E la Savina, dopo aver allegramente contato quel che fece, quel che disse, quel che intese fuori per la giornata, piglia la rocca, e sbattendo il pennecchio del lino, — Su via (dice) facciamola finita; è ora d’accendere il lume e lavorare, se ho da ammanire il corredo della biancheria per quando mi fo sposa». E, nel dire, stazzona col gomito un giovinetto che le sta a spalla.

— La lingua batte ove duole il dente, n’è vero?» scappa fuori una camerata invidiosetta. «Oh, si sa bene che hai l’innamorato.

— Ah ah!» ride la Savina. «Chi? io? ti par egli? sei pur la dabbene! Così fosse! Ma chi vuoi che mi musi? Ha da venir neve rossa.

— Sì, sì», insiste l’altra; «Non farmi la forestiera. Non t’ho forse io scorta jeri quando andavi per acqua, eh? Egli ti pedinava, e che paroline t’ha detto? Oh, se mi tocchi, squatterò io gli altarini. Scomettiamo....

— Neanche un quattrin bacato», interrompe la Savina. «Io non me ne ricordo niente. Sarà stato un caso... E poi... se anche fosse, c’è del male? Han fatto così anche le nostre madri, sicchè...