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ODE PITIA IV | 219 |
Spinte dai soffi di Noto, la foce toccâr dell’inospite
pelago; e un sacro sacello v’eressero al Nume del mare:
ché quivi rinvennero un gregge di fulgidi tauri, ed il cavo
d’un’ara costrutta di fresco.
E, al grave periglio anelando, pregarono il Dio delle navi,
X
Strofe
che delle rupi cozzanti fuggire potessero
l’urto terribile. Due quelle erano; e vive; e sui flutti
rapide piú rotolavano che il volo e il frastuono dei venti.
Pure, segnò la lor morte di quei Seminumi la gesta.
Quinci pervennero al Fasi, e ai negri abitanti di Colco;
ed al mirabile Eèta diêr di loro possanza.
Cípride saettatrice, qui pria giú d’Olimpo ai mortali
recò la torquilla, l’augello deliro,
Antistrofe
variopinto, costretto di laccio insolubile
ai quattro raggi d’un cerchio. E apprese all’Esònide saggio
preci e scongiuri, ché in cuore spengesse a Medea la vergogna
dei genitori; e dell’Ellade Desio, col flagel di Suada,
lei, già infiammata nel cuore, domasse. I cimenti e i segreti
del genitore svelò. Ed olì di farmachi antidoti
contro le piaghe di fiamma temprò, glie li die’, che s’ungesse.
E insieme convennero le nozze soavi. —