Pagina:Odi di Pindaro (Romagnoli) I.djvu/257

Da Wikisource.
220 LE ODI DI PINDARO




Epodo

Or pianta Eèta nel mezzo l’aratro adamàntino e i bovi
che dalle fulve mascelle sprizzavano vampe di fuoco
rutilo; e al sònito alterno dei zoccoli bronzei, la terra
sotto rombava. Da solo reggendoli, al giogo li avvinse,
aperse un gran solco diritto, li spinse, e alla terra glebosa
d’un cúbito il dorso fendé;
e disse cosí: «Gesta simile mi compia il signor della nave,


XI


Strofe

e s’abbia il vello fulgente di bioccoli d’oro».
Disse. E Giasone, fidente nel Nume, gittata la veste
crocea, s’accinse all’impresa: schermivano il fuoco gl’incanti
della maliarda straniera. L’aratro piantò, le cervici
sotto la forza del giogo domò, la molestia del pungolo
su la possanza dei fianchi vibrò, tutto il solco propostogli
schiuse il gagliardo. Alto un urlo nel cuore, con muto dolore,
Eèta, mirando tal possa, levò.


Antistrofe

Tesero al forte campione gli amici le palme,
serti di frondi gli cinsero, gli disser parole soavi.
Ed il mirabile figlio del Sol gli svelò dove il fulgido
vello reciso dal ferro di Frisso giaceva. Né ch’egli
mai quella impresa compiesse credea: ché giaceva in un bosco:
e lo tenevano stretto le orrende mascelle d’un drago
che per lunghezza e larghezza passava un naviglio che i colpi
dell’asce costrussero, che remi ha cinquanta.