Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/280

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libro decimo 265

Quei vedevam, che raccendeano i fochi:
Quando me stanco, perch’io regger volli45
Della nave il timon, nè in mano altrui,
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan tra loro, e fean pensiero,
Che argento, ed oro alle mie case, doni50
Del generoso Ippotade, io recassi.
Numi! come di sè, dicea taluno
Rivolto al suo vicin, tutti innamora
Costui, dovunque navigando arriva!
Molti da Troja dispogliata arredi55
Riporta belli, e prezïosi; e noi,
Che le vie stesse misurammo, a casa
Torniam con le man vôte. In oltre questi
L’Ippotade gli diè pegni d’amore.
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda60
D’oro, e d’argento la bovina pelle.
     Così prevalse il mal consiglio. L’otre
Fu preso, e sciolto; e immantinente tutti
Con furia ne scoppiâr gli agili venti.
La subitana orribile procella65
Li rapìa dalla patria, e li portava
Sospirosi nell’alto. Io, cui l’infausto
Sonno si ruppe, rivolgea nell’alma,