Pagina:Ojetti - Mio figlio ferroviere.djvu/170

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si scorgono i monti verdi e i monti turchini. Il cielo era tanto limpido che delle tre quercie sulla cima di monte Serano si distinguevano i rami, scritti sull’azzurro. I binarii lucidi e i terrapieni della via ferrata s’annodavano, si scioglievano, filavano via con un’eleganza di nastri bianchi e argento tra il verde: piccolo gioco in un piccolissimo spazio dentro quell’immensità luminosa ed ariosa della valle, dei monti, del cielo. La nevrastenia di Mingozzo, le cicche del capufficio, le minaccie dei quattro ferrovieri: giochi anche più piccoli, da bambini. Ed io, un poveruomo impaziente che ogni mattina si proponeva di guardare molto e credere poco, e ogni sera si pentiva d’aver poco guardato e troppo creduto. Roncucci, un guardiasala del mio paese che prima della guerra viaggiava sui treni e, adesso che è mutilato a una mano, è stato lasciato in stazione, s’offrì d’andare fino al deposito delle locomotive a cercar di Nestore. Per cento metri lo accompagnai, poi mi sedetti su uno sgabellaccio di legno dietro una capanna di venti tavole che una pianta di campanule avvolgeva fino alle rugginose lamiere che le facevano da tetto: e tornai a guardare i binarii e i monti e il sereno. Che vogliono insomma questi rivoluzionari e questi comunisti? Si riesce a spiegarlo chiamandoli tutti ladri e tutti banditi e, quando capita, assassini? Avevo sotto i miei occhi il campione del mondo, secondo il loro ideale: quei pochi metri o chilometri, divisi, tagliati, limitati, ordinati