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non l’avevano fatta o avevano fatto finta di farla o peggio avevano finito con la guerra a mettersi le scarpe con lo scrocchio, i calzoni con la piega, il fazzoletto col profumo. Lui Roncucci ci aveva lasciato una mano, e proprio per questo non riusciva a maledirla la guerra. Diceva passando la mano sana sulla mano storpiata: – M’è costata troppo la guerra perchè adesso voglia buttarla al letamajo. – Concludeva sempre i suoi racconti con siffatte parole di saggezza, meditate, capivo, in lunghi silenzii; e quella saggezza che s’intonava tanto bene, quella mattina, alla serena veduta dei monti e del cielo, alla piccolezza e debolezza di noi due uomini rassegnati chiusi al centro di quella ferrea lucida rete dei binarii, non m’è da allora più uscita dalla memoria. Osservava ad esempio: – Io non l’ho voluta la guerra; ma quando l’ho dovuta fare, mi sono messo anche io a cantare e ad applaudire e a baciar le ragazze che mi regalavano i fiori e a gridar viva l’Italia e abbasso l’Austria, morte a Franz, viva Oberdàn. Capivo che sarebbe stata una cosa seria, ma che almeno noi soldati non potevamo fare a meno di farla. Mi ricordo che da ragazzo quando ebbi il tifo, lei, dottore, mi consolava dicendo che m’avrebbe purificato l’organismo e che caduti i capelli mi sarebbero tornati più folti. Ci potevo morire, ma intanto lei mi consolava. Così ho fatto per la guerra: peggio del tifo, ma mi sono consolato. E ce n’è volute di consolazioni per arrivare in fondo. Una notte in trincea ero così sfinito che non riuscivo nemmeno a