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indietro a pancia all’aria. Che era avvenuto? Perchè, perchè Filiberti percuoteva il diletto compagno? Ahimè, non era Pascone, il facondo Pascone, il gran sindaco rosso. Quello era un fantoccio fatto di due bastoni e di stracci: un fantoccio su cui qualche burlone aveva poggiato la celebrata pelliccia e il cappellone nero, come a dir le sue insegne. E Filiberti furente l’aveva, per la dignità del partito, abbattuto d’un colpo. E adesso con la sua vocina fessa e rugginosa, chiedeva: – Chi è stato il cretino che ha fatto questa burla? Chi ha portato qui questo fantoccio? Farabutti, vigliacchi, masnadieri, venduti.... Ma mentre egli inveiva contro quel fantoccio e, noncurante della pelliccia di castoro, lo faceva a calci rotolare giù per la china tra i piedi della folla, da sotto il Municipio si udì scrosciare una risata e poi zampillare un “Eja, eja, alalà” che finì d’inviperire i rossi. Questi provarono a tornar giù di corsa, a scagliarsi contro Tocci e gli altri rei della beffa; ma c’era l’ostacolo dei bersaglieri armati, c’era la folla che scappando e ridendo li impacciava, c’era anche lo scorno d’essere stati burlati. E lo scontro non avvenne. E l’alto della piazza tornò a vuotarsi intorno ai cenci disfatti, alla pelliccia impolverata, al cappellaccio nero del sindaco abbandonati lì sui selci, così che dovette chinarsi un carabiniere a raccattarli. Portandoli giù attraverso la piazza li voltava e rivoltava tenendoli per un lembo, e considerandoli dal diritto e dalla fodera come li volesse pesare e stimare. Alla fine davanti