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Miei? — Tuoi, miei, di Nestore, nostri. — Dove li ha presi? — Dove li ha presi? Osi anche accusare tuo figlio d’un delitto? Discese furente, afferrò la sua veste da camera che era di raso viola, se ne ammantò, e a piedi nudi, a gravi passi, alta la testa, uscì. Era il tocco. Non ne potevo più. M’addormentai. Sognai, mi ricordo, il Re. Ma dove eravamo? A Poreta, proprio sull’aja del mio casaluccio di Poreta coi due pagliai; a destra e a sinistra, la tettoja col carretto rosso, con l’aratro e con le pannocchie di granturco appese alle travi. Proprio il Re, là sotto, col suo sorriso tra affettuoso e scanzonato, come l’avevo veduto quel giorno in piazza per l’inaugurazione del monumento a suo nonno, quando mi chiese quanti metri cubi d’acqua portava al minuto il nostro piccolo acquedotto ed io, bestia, non seppi che rispondergli, e ne rimasi accorato per un mese. Verso la casa e verso la tettoja c’erano degli ufficiali, e anche dei cavalli lustri come fossero verniciati. Adesso, scrivendo, mi viene in mente che quello era, su per giù, lo sfondo dell’incontro tra Vittorio Emanuele secondo e Radetzky dopo Novara a Vignale, nella litografia che sta appesa qui nel mio studio, da quarant’anni. Basta: il Re stava sul davanti della scena solo con me, e mi regalava un ritratto dell’Italia, con la sua corona di torri, liscio e minuto, stampato in filigrana, d’un color tenero di cielo, che pareva una miniatura. E poi un altro me ne regalava, e