Pagina:Ojetti - Mio figlio ferroviere.djvu/95

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poche ore, così rasserenato, riprendevo coraggio e ridiscendevo in città, pur ammonendo me stesso: – Ora, in silenzio, tu te ne torni contento tra i tuoi simili per giudicarli. E anche questa è vanità. Ho detto della vanità ma non devo dimenticar la paura. Quando c’era la guerra, anche la paura si vestiva da coraggio, con tanto di pennacchio e di spadone, ovverosia fiamme e pugnale; ma allora, almeno noi vecchi rimasti quaggiù a casa, non avevamo il tempo d’andare a cercarla tra la folla, la voglia di smascherarla, chè di animi leali e di fegati sani ce n’erano molti in Italia: e s’è veduto. Ma dopo la guerra la proporzione si rovesciò, e su cento italiani che incontravi, novanta battevano i denti e tiravano a nascondersi: e chi aveva paura del fisco e chi dei ladri, chi della serva e chi del curato, chi degli scioperi e chi dei bottegaj, chi degli alleati e chi dei nemici, chi della guardia regia e chi dei comunisti, chi dei fascisti e chi dei carabinieri. Sul tricolore aveva stinto il verde: cominciando dal tricolore che nei giorni di festa, quando cioè i ministeri sono vuoti, sventola sui ministeri romani. I giorni gloriosi per questa paura sono stati, due anni fa, i giorni dei saccheggi al quali per cortesia ai gentili saccomanni la storia ha dato il nome legale di giorni delle requisizioni. Tornavo a piedi una mattina di luglio da un giro di visite di là dal torrente, quando a Porta Romana quelli del dazio m’annunciarono che a