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L'AJA. 205

burro, panni, biscotti, un po’ d’ogni cosa; e poi ripigliammo la via di Gravenhagen.

L’altra passeggiata fu la più avventurosa ch’io abbia fatta in Olanda. Un mio carissimo amico dell’Aja m’invitò ad andare a desinar con lui in casa d’un suo parente, il quale gli aveva manifestato il cortese desiderio di conoscermi. Domandai all’amico dove il suo parente stava di casa; mi rispose: “Lontano dall’Aja.” Domandai da che parte, non me lo volle dire; mi disse di trovarmi la mattina seguente alla stazione della strada ferrata, e mi lasciò. La mattina, ci troviamo alla stazione; l’amico prende i biglietti per Leida; arriviamo a Leida, scendiamo, e invece d’entrare in città, pigliamo una strada a traverso la campagna. Allora pregai il mio compagno di svelarmi il segreto; mi rispose che non lo poteva svelare. Sapevo che quando un olandese non vuol dire una cosa, non c’è potenza in terra che gliela faccia dire; mi rassegnai. Era febbraio, tempo chiuso, punta neve; ma tirava un vento impetuoso e freddo che dopo cinque minuti di strada ci ridusse il viso pavonazzo. Era di domenica, la campagna deserta. Si va, si va, si vedon mulini a vento, canali, praterie, casette mezzo nascoste tra gli alberi, con altissimi tetti di stoppia tappezzata di musco. S’arriva a un villaggio; i villaggi olandesi son chiusi da una barriera; s’infila la porticina della barriera, si entra, non c’è nessuno, le porte son chiuse, le finestre hanno le tendine calate, non si sente una