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206 L'AJA.

voce, non un passo, non un respiro. Si attraversa il villaggio, si passa davanti a una chiesa tutta coperta d’edera come una capanna di giardino, nella quale, guardando per uno spiraglio della porta, si vede un ministro protestante, in cravatta bianca, che predica, e dei contadini coi visi rigati d’oro, di verde o di porpora dalla luce delle vetrate colorite. Si va oltre per una bella strada di mattoni, si vedono antenne per i nidi delle cicogne, palafitte piantate dai contadini perchè le vacche ci si strofinino, paracarri tinti di color celeste, casette colle tegole di vario colore che forman delle lettere e delle parole, bacini con barchette, ponticelli, chioschi d’uso ignoto, chiesuole con un gran gallo dorato sulla punta del campanile; e non un’anima viva, nè vicino nè lontano. Andiamo innanzi, innanzi; il cielo si rischiara un po’, poi si riabbuia; la luce del sole illumina un canale qui, fa scintillare il tetto d’una casa là, indora un campanile lontano, fugge, ritorna, promette, dice, disdice, fa mille civetterie; e sull’orizzonte si vedono delle strisce oblique di pioggia. Cominciamo a incontrare qualche contadina col cerchio d’oro intorno al capo, il velo sul cerchio, il cappello sul velo, un mazzo di fiori sul cappello, e grandi nastri svolazzanti; qualche carrozza di campagnuoli, dell’antica forma Luigi XV, colla cassa dorata, adorna di sculture e di specchietti; contadini con gran vestito nero e gran zoccoli bianchi; ragazzi con calze di tutti i colori dell’iride. Arriviamo a un altro villaggio pulito, lustro, colorito, colle sue strade am-