Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) I.djvu/61

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LXII PREFAZIONE

le gemme prodigiose, non stringeva che viscide alighe. Ed ecco, uno, due, cinque, dieci tentàcoli, sferzano il braccio incauto, lo avvinghiano, trascinano l’imprudente, con forza irresistibile, nei regni della morte. Scilla, la terribile Scilla? Che fare? Fuggire. Meglio perdere uno dei cari compagni che tutti!

Eia fantasmagoria continuava. Qui su la vetta d’un’alpe inaccessibile, un vorticar di fumo, un lampeggiar di fiamme, un tempestare di bombiti orrendi. E pietre immense erano scagliate dalla cima, giú giú per le balze, sino a sfiorare i fianchi del battello.

Anche di qui, fuggire! E calava la notte negra, senza stelle. Aperte le vele ad un alito di vento, i nocchieri si abbandonavano al dèmone.

E il dèmone li spinge miracolosamente, di notte, per una gola angusta, entro un difficile porto. Il battello approda ad una spiaggia declive, e rimane lí fisso, senza bisogno d’àncora, fasciato da un buio impenetrabile.

Ma all’alba, dopo l’inquieto sonno, quale paesaggio d’incanto s’illuminava ai loro occhi! Entro una luce purissima, boschi profondi, orti, giardini, dove tutti i fiori e tutti i frutti, questi appena turgescenti, quelli maturi, altri quasi disfatti, imbevevano l’aria d’aromi inebrianti come liquori. Erano gli orti elisi? No, era la patria di gente felice. E fra loro i nocchieri passavano alcuni giorni di sogno.

E il poeta beveva, beveva con tutti i sensi la fantasmagoria prodigiosa. Tutte le parvenze del mondo esterno, ingolfandosi impetuose pei suoi cinque sensi, colpivano, ferivano prodigiosamente la sua anima profonda. Ed essa rispondeva all’urto con la parola. Ogni immagine, sonora, luminosa,