Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/10

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CANTO XIII 7

110e piú divina quella che a Noto si volge; né quivi
possono gli uomini entrare: ché quivi è l’accesso dei Numi.
Quivi i Feaci, del luogo già sperti, approdarono; e il legno
sopra la terra balzò, per metà di quanto era lungo,
impetuoso: tal forza di mani incombeva sui remi.
115E fuor dal ben commesso navile balzati alla spiaggia,
prima di tutto, Ulisse levaron dal concavo legno,
lui con le sue coperte fulgenti, col drappo di lino,
e lo deposero sopra la sabbia, che ancora dormiva;
e le ricchezze presso gli poser, che i prenci Feaci
120date, mercè d’Arete, gli avevan quand’egli partiva;
e presso il piè dell’ulivo le posero tutte in un mucchio,
fuor della via battuta: ché a caso, qualcuno, passando
pria del risveglio d’Ulisse, non dovesse farne man bassa.
E poi, presero anch’essi la via del ritorno. E Nettuno
125non obliò le minacce che aveva già prima rivolte
a Ulisse, eroe divino. Ma chiese il consiglio di Giove:
«Giove padre, mai piú fra i Numi immortali rispetto
goder potrò, se onore mi negano sino i mortali,
sino i Feaci, che pure discesero dalla mia stirpe.
130Credevo io ben che Ulisse dovesse ancor molto patire
per ritornare alla patria: contendergli in tutto il ritorno
non potei, no: ché tu glie l’avevi già prima promesso.
Or quelli in una nave, nel pelago, immerso nel sonno,
l’han trasportato ad Itaca, gli han dato innumeri doni,
135opere d’oro in gran copia, di bronzo, con vesti intessute,
quante non mai da Troia ne avrebbe Ulisse recate
se con la parte sua di preda egli illeso tornava».
     E gli rispose Giove che i nembi nel cielo raduna:
«Ahimè, che cosa dici, Signore che scuoti la terra?