Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/16

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CANTO XIII 13

290«Fine davvero, scaltrito sarebbe chi te superasse
nelle malizie, ché tutte le sai, fosse pure un Celeste.
Raggiratore dai mille trovati, mai sazio di frodi,
neppur qui, nella terra paterna ristai dagl’inganni,
dai menzogneri discorsi, che cari ti son da la culla!
295Ma via, piú non si parli di questo; ed entrambi cerchiamo
qualche astuzia: ché tu sei fra tutti i mortali il piú scaltro,
di mente e di parola; ed io fra i Celesti d’Olimpo
son per saggezza e finezza famosa: né tu conoscesti
Pàllade Atena, la figlia di Giove, che, sempre vicina,
300in tutti i tuoi travagli t’assisto e ti sono custode:
e modo anche trovai che caro ai Feaci tu fossi.
Ed ora sono qui per tessere teco un consiglio,
e per nascondere i beni che t’hanno donato i Feaci
per mio volere e mio consiglio, allorché tu partisti.
305E tutti quanti i travagli ti dico che devi soffrire
nella tua casa, com’è destino. E tu devi patirli;
ed a nessuno ti devi svelare, né uomo, né donna,
che dopo lungo errare sei giunto; ma startene muto,
patire i gravi crucci, le ingiurie patir delle genti».
     310E le rispose cosí l’accorto pensiero d’Ulisse:
«Difficil cosa è, Diva, per l’uomo mortal che t’incontra,
te ravvisar, per accorto ch’ei sia: ché tu assumi ogni aspetto.
Ma questo io bene so: che dapprima tu m’eri benigna,
finché sotto le mura di Troia pugnaron gli Achivi;
315ma poi che la città di Priamo avemmo distrutta,
poi che le navi ascendemmo, e un Nume disperse gli Achivi,
io non ti vidi, o figlia di Giove, mai piú, né m’accorsi
che sulla nave mia salissi, a schermire il mio danno;
ma sempre, entro il mio seno sentendo squarciarmisi il cuore,