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Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/227

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224 ODISSEA

140Restò tre anni ascoso l’inganno, e gabbati gli Achivi;
ma poi che il quarto giunse, tornando la bella stagione,
una delle sue donne c’informò, che tutto sapeva,
e la cogliemmo, mentre struggeva la fulgida tela.
Cosí, pur contro voglia, le fu giocoforza finirla.
145E quando l’ebbe poi finita, la fece lavare,
e un manto ci mostrò che un sole pareva, una luna.
E allora un triste dèmone Ulisse condusse alla patria,
dove il porcaro aveva la casa, all’estremo dei campi.
Frattanto anche Telemaco, il figlio d’Ulisse divino,
150dalla sabbiosa Pilo giungeva sul negro naviglio:
e contro ai Proci entrambi tramando la misera morte,
all’inclita città pervennero: Ulisse secondo
e Telemaco primo, che guida gli fu nel cammino;
e lo condusse, tutto coperto di cenci, il porcaro,
155che somigliasse a un pitocco che vada errabondo, ad un vecchio.
Né alcun di noi poté riconoscer che Ulisse egli fosse,
quando improvviso apparve, neppure quelli ch’eran piú annosi;
ma lo colpimmo di male parole e investimmo di colpi.
Ma i colpi egli e le ingiurie, sebben fosse sotto il suo tetto,
160patí con saldo cuore, sinché non fu giunto il momento.
Ma quando poi lo destò de l’Egioco Giove la mente,
spiccate via, col figlio Telemaco, l’armi stupende,
le collocò nel talamo, e chiuse sovra esse le imposte.
Alla sua sposa allora suggerí con molta accortezza
165che proponesse ai Proci la gara dell’arco e dell’asce,
ch’esser doveva per noi tapini principio di morte.
Né tendere poté dell’arco possente la corda
niuno di noi: ché scarse troppo eran le forze alla prova.
Ma quando l’arco grande fu giunto alle mani d’Ulisse,