Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/228

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CANTO XIV 225

170qui tutti insieme noi levammo la voce, ad imporre
non gli si desse l’arco, per chiederlo ch’egli potesse.
Solo insisté, die’ l’ordin Telemaco ch’egli lo avesse.
Quindi in sua mano Ulisse tenace divino lo tolse,
e facilmente la freccia scagliò per i fori dell’asce;
175poscia balzò, si piantò su la porta, versando le frecce,
terribilmente guardando, colpì prima Antinoo. E poscia
scagliò su tutti gli altri dall’arco orribili frecce.
Dritto mirava; e quelli cadevano l’uno su l’altro.
Si conosceva bene che un Dio gli era presso, al soccorso.
180Alla sua furia cosí soccombendo per tutta la sala,
chi qua chi là cadeva, levandosi sconcio fracasso
delle teste percosse: di sangue fumava il piantito.
Cosí dunque morimmo noi tutti, Agamènnone; e i corpi
giacciono senza onore tuttor nella casa d’Ulisse;
185ché nulla sanno ancora, d’ognun nella casa, gli amici
che dalle piaghe le faccie detergano, e levino il pianto
sovra le salme esposte: ché tale è il diritto dei morti».
     E de l’Atride l’alma rispose con queste parole:
«O te beato, Ulisse, scaltrito figliuol di Laerte,
190quanta era la virtù della donna che avesti consorte!
Quanto fedele fu Penelope figlia d’Icario,
quanta saggezza la sua! Che memore sempre d’Ulisse
fu, del legittimo sposo! Per questo, perenne la fama
sarà di sua virtú: d’amabile canto i Celesti
195sempre onorata vorranno Penèlope piena di senno.
Non tramò, come la figlia di Tindaro, scempi nefandi:
quella il suo sposo uccise legittimo; e canto d’obbrobrio
ne sarà sempre fra gli uomini; e sopra le femmine tutte
impresse mala fama, se pur bene adoperi alcuna».