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133-162 A DEMETRA 111

sia questa, ignoro; ignoro che genti soggiornano in essa.
Ma tutti i Numi a voi, quanti hanno dimora in Olimpo,
diano legittimi sposi, vi facciano madri di figli,
come ne braman gli sposi. E voi, compassione, o fanciulle,
o care figlie, abbiate di me, sin ch’io giunga alla casa
di due giovani sposi, dove io renda ad essi servigi,
quali una donna già vecchia può rendere: voglia ne ho molta.
Ed anche un neonato tener fra le braccia potrei,
e nutricarlo bene, potrei far la guardia alla casa,
il letto dei padroni rifare potrei nel recesso
del talamo, potrei nei lavori addestrare le ancelle».
     Cosí disse la Dea: rispose cosí di Celèo
la più vezzosa figlia, Callídice, vergine intatta:
«Mamma, quello che i Numi ci dànno, per quanto ci crucci,
gli uomini debbon soffrire: ché i Numi son troppo più forti.
Ma questo io ti dirò per filo e per segno: per nome
gli uomini ti dirò che son qui sopra tutti onorati,
che hanno potestà sul popolo, e son baluardo
alla città coi saggi consigli e le giuste sentenze.
Dirò dunque per primo l’accorto Trittòlemo, Eumolpo
che mai tócco da menda non fu, Polissèno, Diòcle,
e Dòlico, ed il nostro magnanimo padre. Le loro
spose, alle case loro provvedono tutte; e nessuna
sarà di queste, certo, che quando tu prima le appaia,
ti scacci via di casa, perché non le piaccia il tuo viso:
anzi, t’accoglieranno: ché sembri, a vederti, una Dea.
Or, se ti piace, rimani: ché noi torneremo alla casa
di nostro padre, e tutto diremo alla mamma diletta,
a Metaníra, punto per punto, se forse ella dica,
che a casa nostra, senza cercar quella d’altri, tu venga.