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64 INNI OMERICI 50-78

acuto sorse. E il Dio cantava soave, tentava
d’improvvisare, come sono usi i fiorenti garzoni,
che nei convivii l’un l’altro ferisce con motti pungenti.
E del Croníde cantò, di Maia dai sandali belli,
come la prima volta li strinse un colloquio d’amore;
e ricordò nel canto com’egli medesimo nacque.
Anche le ancelle esaltò della Diva, e la fulgida casa,
e della casa i tanti lebèti, ed i tripodi; l’una
cosa cantava, e l’altra volgeva di già nella mente.

Quando finí di cantare, depose la concava cetra
entro il canestro sacro. E poscia, di carne bramoso,
alla ventura, fuori balzò dalla casa fragrante,
entro la mente volgendo sottile un inganno, di quelli
che, quando piú s’infosca la notte, mulinano i ladri.
Già dalla terra verso l’Ocèano il sole scendeva,
col suo carro, coi suoi veloci cavalli. Ed Ermète,
della Pïèrïa, giunse, correndo, alle ombrose montagne,
dove i giovenchi, immuni da morte, dei Numi beati
avean le stalle, e i prati pascevano amabili, intatti.
Di Maia il figlio, ch’Argo trafisse, che acuto ha lo sguardo,
qui dalla mandra distolse cinquanta muggenti giovenchi,
e li sospinse, per vie traverse, sul lido sabbioso,
ed al contrario mandò gli zoccoli: quelli di dietro,
avanti, e quelli avanti, di dietro: ei medesimo l’orme
capovolgeva all’indietro: non pose le frodi in oblio.
E i sandali scagliati sovressa la sabbia del mare,
opere macchinò non mai né pensate né dette,
stupende: insiem rametti legò di miríca e mirtillo,
e, dalla florida selva cosí stretto insieme un fastello,