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68 INNI OMERICI 160-188

Anzi, io mi voglio in un’arte scaltrir, la piú fine di tutte,
che a me, che a te darà perenne fulgore. Fra i Numi
noi due non resteremo piú privi di preci e di doni,
non resteremo piú qui, come tu penseresti, a patire.
Meglio è tutta la vita passar conversando coi Numi,
ricchi, opulenti, provvisti di campi, anziché stare in casa,
poltrire entro una buia spelonca. Raggiunger gli onori,
anch’io, le offerte avere desidero al pari d’Apollo.
Ché se non vuole il padre concedermi tanto, altra prova
farò: capo sarò di ladroni: ché il cuor me ne basta.
Ché poi, qualor mi colga l’illustre figliuol di Latona,
di quanto mi farà, saprò ripagarmi ad usura:
a Pito andrò, saprò nel tempio suo grande introdurmi,
e lí, farò man bassa dei tripodi belli, e i bacini
del luccicante ferro, farò man bassa dell’oro
e delle tante vesti: veder tu potrai, se lo brami».
     Queste parole cosí scambiavano l’uno con l’altra,
la veneranda Maia col figlio di Giove possente.

Ed ecco, balzò su dai gorghi d’Ocèano profondi
Alba che presto si leva, che reca la luce ai mortali.
E mosse Apollo, e giunse d’Onchèsto all’amabile selva,
al Dio sacra che stringe la terra, che fiero rimbomba.
E il vecchio qui trovò, che lungo la via, d’una siepe
cingea la vigna; e primo gli disse il figliuol di Latona:
«Vecchio, tu che in Onchèsto l’erbosa raccogli marruche,
dalla Pïeria io qui son giunto a cercare il mio gregge,
tutte le femmine, tutte di corna ricurve, sbandate
lungi dal branco. Il toro cerulëo, solo pasceva
lungi dall’altre; e cani seguiano, dagli occhi di fuoco,