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Pagina:Opere (Chiabrera).djvu/249

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236 poesie

Non si mirando intorno altro che morte:
Ma poscia sposa di sublime amante
Ebbe regno superbo, ebbe corona,
Non mai goduta da mortal donzella.
130Appena chiuse le rosate labbra,
Che Citerea le fu da presso; e poscia
Ch’ebbono posto all’accoglienze fine,
Venere bella a così dir le prese:
Ninfa gentil, che de gli umani cori
135Sempre pietosa il loro mal consoli
Per via ch’a sofferir fassi men grave,
Queste del mio figliuolo aspre saette
Giungono altrui nell’anima sì forte,
Che’l mondo duolsi, e con querele eterne
140Ei ne bestemmia il vïolento arciero;
Onde io m’attristo; or tu gentil, che tempri
Co’ bei segreti tuoi l’umane angosce,
Ungi queste armi d’alcuna erba, o note
Mormora sopra lor, che sian possenti
145A svenenarle, e n’avrà pace il mondo,
E tu gran fama di pietate, ed io
Non mi sciorrò giammai da’ merti tuoi.
A questi prieghi la gentil donzella
Diede risposta prontamente, e disse:
150Nè tu di cosa indegna unqua desire
Aver potresti, ed alle tue vaghezze
Io non posso venir giammai ritrosa:
Al fin delle parole ella raccolse
I fieri dardi, e d’un licor gli sparse
155Meraviglioso alla mortal credenza:
Con questo tempra ogni cordoglio, e scema
Ogni orribile angoscia; onde il martire
Non lascia in preda a morte alma dolente:
Sì medicata la terribil punta
160De gli aurei strali, a Citerea gli porse.
Ella partissi, e ritornando al regno
Poi ridonogli all’amoroso infante;
Ed ei piagando altrui non diè ferita,
Che fosse a sopportar senza diletti.
165Aggia qui fin la dilettosa istoria;
E se giammai ne i campi d’Anfitrite
Trascorrerai, Gian Agostin, co’ remi
Cercando l’aure volatrici allora,
Che latra il can dalle stellanti piagge,
170O se giammai sovra fiorita erbetta,
Cui purissima Najade rinfreschi,
Ti schermirai dalla stagione ardente,
Rivolgi ivi la mente al mio Parnaso:
Che se di pochi fiori oggi t’onora,
175Tesserà forse un dì maggior ghirlanda.

XV

IL DIASPRO

AL SIG. GIO. FRANCESCO BRIGNOLE.

MARCHESE DI GROPPOLI.

     Un dì sull’apparir dell’alma Aurora
Per la stagion d’april, che l’alme espone
Al bello ardor dell’Acidalia stella,
Amor disposto a guerreggiar ne i cori,
5L’armi provò di sua faretra: ei trasse
Ad una ad una fuor l’auree quadrella,
E mentre ei tocca coll’eburnee dita
La cruda punta di quei dardi, incauto
Un se ne punse, e leggiermente afflitto
10Dalla rosata man sangue cosparse:
Immantenente ei rinversò dagli occhi
Tepido rivo; e sbigottito in volto
Per l’insolita piaga, ei sciolse il volo
Inverso Febo, a ricercar conforto:
15Poco penò sulle volubil piume,
Che fu per entro il quarto cielo, e scorsa
Del biondo Apollo l’ammirabil stanza,
Ei trapassò della gemmata porta
La soglia d’oro, nè fermò le penne,
20Che fu da presso al luminoso Nume.
Erano al carro fiammeggiante, ardente
Di topazzi, d’elettri e di piropi
Legati i gran corsieri, Eto, Piroo,
Eoo, Flegonte; e dell’ambrosia eterna
25Dalle nari spandeano aure immortali;
E mal soffrendo del cammin l’indugio,
Calpestavan con unghia di diamante
Il chiaro smalto dell’etereo campo;
E de’ fulgidi freni il gran tesoro
30Avea già Febo nella manca, e pronto
Moveasi omai per l’infinito spazio
Delle strade stellanti allor, ch’ei scerse
Il tristo aspetto dell’Idalio arciero:
Subito allor l’infaticabil destra
35Egli ritenne, ed arrestò la sferza,
Che minacciava alle nettaree groppe:
E ver l’eccelso peregrin movendo
Con lietissima fronte, in bel sembiante,
Fece sentir queste parole alate:
40Onde oggi vieni? e qual cagion t’adduce
A questi alberghi? è già non picciol tempo,
Che non gli festi di tua vista degni,
Unico re dell’invincibile arco,
Che pur sovra ogni cor ti dona impero:
45Ma perchè gli occhi molli, e ’l bel tesoro
Veggio turbarsi dell’amabil fronte?
A cui di Citerea rispose il figlio,
Alzando il dito sanguinoso, e disse:
Mira, che forte piaga, e che ruscello
50Sgorga di sangue: io rivedendo il filo
Di mie quadrella, e colle proprie dita
Amando farmi del lor taglio esperto,
Mi son trafitto; e tuttavia trabocca
L’onda vermiglia della piaga acerba;
55Ma tu, Signor dell’arte, onde salute
Viene agl’infermi, al cui saper son conte
Di ciascun’erba le virtù segrete:
Nè chiusa valle, o solitario giogo
Nobil foglia produce, i cui licori
60Siano alla vista di tua mente ignoti,
Alcun conforto a’ miei dolor comparti,
E frena il sangue, e la ferita chiudi,
Onde io sono infelice, e de’ tuoi doni
Non pur meco sarà lunga memoria,
65Ma non giammai porragli in cieco obblio
La bella qui fra voi mia genitrice.
Così diceva, e sulle guance adorne
L’ostro per lo cordoglio impallidiva;
A cui rispose dell’eterea luce
70Il non mai stanco guidatore eterno:
Io non dirò per aggravar parlando
La doglia, onde vai carco; e con mie voci
Rinnovare al presente ingiurie antiche,