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282 poesie

Di sangue miserabili torrenti,
Idol si fece, ed appellossi Marte:
Ma quelle sciocche iniquità remote
Ogni nebbia ricopre: e di virtute
Chiaro splendor queste giornate adorna,
Serbando l’orme delle guaste note.
Come dodici volte in ciel vedute
Sian le bellezze della fresca Aurora,
Viene dal gran Gregorio il gran splendore:
Astro d’Italia; e di suo nobil merto
Fassi con armonia sacro racconto.
Egli sovran dottor, sovran pastore,
Sua verace pietà soffrir non volle
Il tosco d’Arrio funestar le Spagne;
Di Maurizio spezzò l’aspro furore;
Col battesmo salvò la gente Inglese;
Domò l’orgoglio di Bizanzio; e franco
Roma da ferri barbari difese.
Così di lui cantando aurea ghirlanda
Non di caduchi fior tesse Parnaso,
Ma Parnaso celeste, il cui concento
Ed all’Invidia, ed all’Obblío comanda.
Nè men canta di te, sacro Giuseppe,
Della Madre di Dio Vergine Sposo,
Poichè s’accosta di Latona il figlio
Al ripien di vigore almo Arïete,
Quando sotto bei rai l’aeree piagge
Di bel seren per Aquilon son liete.
O chiaro germe della Regia Tribu,
O figliuol di Giacobbe, o Betlemmita,
I cui raggi oscurò già povertate:
Di quale imperador gloria infinita
Quaggiù lampeggia? o qual s’innalza scettro,
Che possa pareggiar tua dignitate?
Tu solo scelto a ben servire il giusto,
Dalle nubi piovuto, e suoi divini
Tanto giocondi ad ascoltar vagíti,
Tu raccogliesti; e dar potesti baci
Delle beate fasce a i puri lini;
Tu sugger nel digiun vergine latte
Il rimirasti; e per cotanti modi
Iddio, fatto bambin, tu vezzeggiasti.
Che posso io dir per illustrar tuoi pregi,
Che posso dire io più? dunque men varco
Alla bella stagione, in cui si diede
A tanti guai dell’universo aita,
Da non giammai sperarsi altronde, in cui
A germogliare il Salvator s’elesse
L’inclita terra. Allor temprossi il ferro,
Onde il furor delle Tartaree squadre
Fu conquassato con orribil guerra.
Allora al re de’ tenebrosi abissi
S’apparecchiaro adamantini ceppi
Da rilegarlo nelle furie infeste;
Ed all’incontro furo uditi i preghi,
Perchè scendesse ad arrecar salute,
L’immenso amor della bontà celeste.
O promesse di Dio non mai bugiarde
Ecco il roveto, che Moisè percosse
D’alto stupor, mentre sull’erta cima
Del Sinai non si distrugge ed arde;
Ecco non men di Gedeone il vello,
Quando asciutta lasciò l’ampia contrada,
Là dove era disteso; ed in lui piovve
Il gran Dio d’Israel tanta rugiada.
Adunque chiara e ben serena; adunque
Lieta quinta e vigesima giornata,
E lieto Marzo; ivi spiegò le penne,
E quaggiù divulgò fido messaggio
La lungamente disïata pace.
In Nazzarette Gabbriel sen venne,
Ed alla Piena d’ogni grazia spôse,
O giorno singolar! l’alto decreto;
Ed ella consentendo umil rispose:
In quel momento del perduto mondo
Ebbesi al mondo il Salvatore; e fersi
Alla natura non possibil cose;
Le quali a dir non ha Parnaso cetra,
Salvo che bassa molto a farsi udire;
Però tacciamo; ed ogni cor gentile
Darà perdon; poichè non merta scusa
Un fuor di speme, e sconsigliato ardire:
Dunque meno alte vie corriamo, o Musa.
Ecco ritorna, e ne rimena Aprile
L’aspettata beltà di Primavera.
Ella il candido sen tutta svelata
Al bel Zefiro suo fa rimirarsi,
I biondissimi crin fiorintrecciata;
E dovunque rivolge il piè vezzoso,
Verdeggia di bella erba ogni pendice:
Ogni onda di ruscel divien più chiara,
E tra l’orror di giovinetti boschi
Più l’aura se ne va mormoratrice;
Ma sullo smalto de’ cerulei campi
Fa nel cielo strisciar le rote d’oro,
Febo sferzando, e con la face eterna
Le corna alluma dell’etereo toro.
Nè perchè toro io nomi il folle vulgo,
Poco pensando, mie parole scherna;
Altre belve là suso hanno ricetto:
Son ciò serpenti ed arïeti ed orsi,
E non meno centauro arco vi tende;
Non per tanto è mestier sano intelletto,
Mentre s’ascosta; che ove senno abbonda
Spesso per buon consiglio alcuna cosa
Suona la lingua, altro rinchiude il petto;
E per tal guisa a Marco il gran Cronista
S’accompagna leone, onde sia chiaro
Con qual forza suo dir fosse sentito:
Certo, ch’egli dal cor spinse la voce
Contra barbara gente ed idolatra,
Così forte ad udir, come ruggito.
Ei resse d’Alessandria il sacro Impero
Fedelemente; ivi d’iniqua spada,
Perchè gisse a morir, piaga sofferse;
Del puro sangue testimonio vero,
Che per prezzo del mondo al ciel s’offerse:
È di sua pena il celebrato giorno,
Che vigesimoquinto esce dall’onde;
Ed in quel tempo è confermata usanza
A coppia a coppia uscir teste sacrate,
E la plebe raccolta in lunghe righe,
Seco peregrinar per la cittade;
Non già tacendo; anzi con preghi ed inni
Fassi volare universal concento,
Invocando di Dio l’alta pietade;
Ed ei non la ci nega, ove cosparte
Vadano con dolor calde preghiere,
Nè di finta bontà siano i sospiri.
Deh chi di ben pregar n’insegna l’arte?
Ed onde apprenderemo esser dolenti?
Ecco ad ira commosso il gran Tonante