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246 vita di alberto pisani

d’ho tra le mani un romanzo, sgraziato o pel formalo o pei tipi, o quando l’odor della caria, che puzza ancora di cencio, mi fà starnutare su versi dalla fragranza di rosa. Che se poi è illustrato, Dio mio ! per quanto mi astragga, per quanto io mi faccia suo allore, tuttavìa, bisogna lo legga con gli occhi ; dùnque, bisogna "he soffra lanli intrusi ignoranti o maestrùeoli oziosi, che intercalati nel testo tagliano in due l’idea dello scrittore e la mia, o rompono, con un cul-de-lampe stonalo, la dolce armonìa di tulio un capìtolo. Tornando a noi, cioè a dire ad Alberto, egli non rifiniva a mirare il suo elegante volume e di sopra e di sotto, senz’arrischiarsi ad aprirlo. E il cuore andàvagli a vela ; non che pensasse a colei per la quale avea scritto, non che temesse la giornalìstica eunueomachìa , non sovveniva neppure rammatlimenlo trascorso e nel lavoro di testa e in quello di schiena, nè le stracchezze, gli scoramenti, il pianto. Ora, di tulio il suo libro, Alberlo non iscorgeva se non la materiale edizione ; gli avessero chiesto che conteneva, avrebbe sorriso intrigato. Finalmente, lo schiuse. Xe uscì un profumo, degno di un fazzoletto-battista. La caria era una pùnera doppia e in essa allondàvan le lèttere, come i cialdoni nella neve-di-lalte. Ma Alberto, nell’adocchiare su e giù, lesse : mac. — Mac? — si chies’egli — ceche dir vuole i» mac? — E tanto con la memoria era lungi, che non capì sul bel primo che non volea dir nulla ; almeno, in quell’ora. — Mac? — ripelò; e, per chiarirsi le idee incominciò a lèggere dal sommo :