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CAPITOLO DECIMOQUARTO 265

la. E il disgraziato, riempiuto di stregghie e gualdrappe, di cavezze e stivali, dovea dormire nelle rimesse, invidiando il compagno e le sacche, portate sopra in istanza, e più che tutti, una certa borsetta con su un cagnolino in ricamo che la padrona mai non lasciava. La quale borsetta, poggiàvasi ora contra il grosso baule ; il cagnolino era quasi sparito, difeso invano dal pepe. E, dietro a costoro, uno corto, a volta, peloso, mangiato mezzo dai topi. Esso avea servito il canònico Sisto, ' prozìo paterno di Alberto. Puzzava ancor di caprino. E, più di una volta e di due, avea fallo il viaggio di Roma (per ordir qualche male, s’intende) a triplo fondo e a segreti, come il padrone. Tutto al contrario di quella cassa-baule verniciata in celeste del capitano Pisani, spensierata e mai chiusa, come il cuor di colui ; ora, zeppa di roba, nuova, fiammante; quando.... tàbitiis rasis. Poi — se ne vedèan ben allri, servi fedeli, amici della famiglia. E il lungo e stretto baule, il quale insieme a Nicola, cugino del capitano, avea passalo Ire anni nei Barnabiti e gli avea nascosto i dolci e i romanzi.... per rincasare da solo ! e il cassone foderato in velluto del ciambellano Elclrèdi, padre di donna Giacinta, che rinchiudeva chincaglierìa di Corte e livree, e che scampava la vita ad un Conlardo Pisani, altro prozìo di Alberto, il quale usava firmarsi Cajus Cai pumi us Piso, e agiva da tale ; poi, tanti altri, e casse e bauli e valigie, screpolate e sdipinle, il cui ricordo era ito, ma tulli cari, già un tempo, all’èsule e al viaggiatore, come porzioni della casa natia. E astucci senza posale, e cappelliere senza cappello. Che compagnia, eh ? — disse Paolino, battendo l’una contro delfaltra le mani impolverate.