Pagina:Opere (Dossi) I.djvu/317

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284 ELVIRA monìa confederatasi all’ora, mi strazia di voluttà, riparo nella mia càmera. Ho bisogno di piàngere e le làgrime àmano la solitùdine. Ma no, non sono le anònime desolazioni di un tempo, tempo bealo nel quale spremevo il pianto da occhi che non ne volèvan sapere. Quelle pene, a paragone di queste, èrano piume di cigno c foglie di rosa ; era il desio di un ideale, ne è adesso il rammàrico. Zitto ! Malinconìa, dal tàcito piede, viene. Mi appoggio allo stìpite del caminetto in cui il fuoco sonnecchia e nella cui cappa piòvono gravemente gli echi di una squilla lontana «clic pare il giorno piànger che si more» e.... ♦ Elvira era bella, e, quantunque bella, d’ingegno, e quantunque d’ingegno, buona. Di pi», pòvera. O povertà benedetta ! chè in te, o fastidiosa abbondanza, Amore sovente cade di sbadiglio e d’inedia. Dove la soddisfazione precede la voglia, la nausea la fame, oh di quanti alleali manca un affetto ! Elvira era beila, ripeto ; non mi stale a citare le vostre bellezze Greche o Romane, tutte le stesse. Ella era "diversa delle altre ; non sofferiva, s’intende, un di que’ corpi, che si dicono eròici, olìmpici, da abbracciarsi a riprese e ansando, roba forse per i templi e gli incensi, non per le case ed i baci ; bensì di quelli, lievissimi, che si pónno raccòrrò in un mezzo abbraccio, senza doverli, per sentire qualcosa, oltraggiare. Guardando il suo fràgile viso, in cui la forma perdòvasi nel l’espressione, non si poteva certo pensare che l’ànima le dormi se, e, incontrando gli occhioni di lei, cilestrini, eruditi, lietissimi d’ombra, si comprendeva perchè