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POESIE 401

Ei di selvagge e timidette belve
     Cacciator non mai stanco
     Sol per ischerzo oprò l’arco e lo strale;
     Fu sua gloria maggiore a fier cignale
     65Aprir i’ispido fianco
     Del frondoso Erimanto infra le selve;
     Mentre visse quaggiù noto fu solo
     Di Dïana a lo stuolo;
     Garzon crudo di cor, bel di sembiante,
     70Sol di sè stesso e de’ suoi boschi amante.
Tu fra selve di lance in su la riva
     De l’indomito Scalde
     Cacciator di Bellona i dì traesti;
     Là di sangue infedel l’acque tignesti,
     75Che poi vermiglie e calde
     Scoloraron del mar l’onda nativa.
     Te vide il Po sotto l’insegne Ibere
     Fugar turbe guerriere,
     Quando l’aquila e ’l toro a guerra usciti
     80Fêr rimbombar al suon de l’arme i liti.
Per te lungo il Danubio il fier Boemo
     Scorse pur dianzi in guerra
     Del suo sangue fumar le patrie nevi.
     Lasso! ma troppo i giorni tuoi fur brevi:
     85Gelido marmo or serra
     L’altrui speranze e ’l tuo valor supremo.
     Almeno un ramo sol di sì gran stelo
     A noi lasciasse il Cielo:
     Ah! che la sorda Dea con falce adonea
     90Da la radice amaramente il tronca.
Ma forse io che nel duol sommerso ho’l core,
     Co’ pianti e sospir miei,
     Felicissimo eroe, scemo il tuo riso.
     Or tu colà nel fortunato Eliso
     95Con gli Achilli e i Tesei
     Favoleggiando vai d’arme e d’amore;
     O più rimoto al piè de’ mirti ombrosi
     Dolcemente riposi,
     Se pur in quelle selve opache e vaste
     100Ad anima sì grande ombra è che baste.
E come nubi di vapor terreno
     Che tenebrose e brune
     Saglion del sole ad offuscar la face,
     De la tua dolce e sempiterna pace
     105Le mie doglie importune
     Vengono a conturbar il bel sereno.
     Ma pur segni d’amor son anco i pianti.
     Tu de gli affetti erranti
     Scusa il debole cor: me stesso i’ piango,
     110Che qui privo di te morto rimango.

al signor conte

GIO. BATTISTA RONCHI

Che l’invidia non dee temersi, e che la poesia
è sollevamento dell’avverse fortune
.

Mentr’umile m’inchino al tuo gran Nume,
     O Febo, e di devoti
     Incensi io spargo il riverito altare,
     De l’innocente cor le non avare
     5Preghiere e i casti voti
     Seconda tu con fortunato lume:
     Ben sai, che non presume
     L’alma gran cose, e che fra sè contenta
     Mentre poco desia nulla paventa.
10Temerario nocchier che da l’Ispane
     Rive sciogliendo i lini
     Prende a solcar i procellosi umori,
     E vago di mercar gemme e tesori
     Ne gl’Indici confini
     15Fida l’anima audace a l’onde insane,
     Chieda a Nettun che spiane
     L’atre tempeste; e perchè Borea leghi
     Porga a l’Eolio re sordidi preghi.
E chi servo si fe’ di regia corte
     20Prodigo di sè stesso,
     E non ha cor che libertate apprezze,
     Chiedendo i vani onori e le grandezze
     Ond’ei rimanga oppresso
     Vittime ambiziose offra a la Sorte.
     25Che prò? Gelida morte
     Tutti n’agguaglia; e d’Acheronte al guado
     Nulla giovano altrui ricchezza o grado.
Deh dammi tu o luminoso arciero
     Dolce snodar il canto,
     30Dolce accoppiar a l’aurea cetra il plettro;
     Quella sia ’l mio tesor, questo il mio scettro:
     Pur che d’Aonio vanto
     Sia celebre il mio nome altro non chero:
     Spiegar fors’anche i’ spero
     35Dietro la scorta del Cantor Tebano
     Per l’italico ciel volo sovrano.
Io so che di mortal veleno infette
     Invidia arrota l’armi,
     E che m’assale insidïosa a tergo:
     40Ma se Virtù d’adamantino usbergo
     Mi cigne, e che può farmi
     Importuno livor con sue saette?
     Faran le mie vendette
     Gli strali istessi; e l’innocenza illesa
     45Rilancierà ne l’offensor l’offesa.
Qual volge atro scorpion, se fiamma il chiude,
     La coda a’ propri danni,
     Tal invidia a sè stessa è rio tormento.
     Nè mai di Siracusa o d’Agrigento
     50Inventaro i tiranni
     Per affligger altrui pene più crude;
     Nè la Stigia palude
     Ha sì grave martír, che vie maggiore
     Nol provi ognora invidïando un core.
55Rota eterna Isione in giro mena,
     E con fatiche estreme
     Sisifo innalza il sasso, ed ei pur scende:
     Tantalo a i pomi, a l’acque i labbri stende.
     Ma deluso in sua speme
     60Sol morde l’aria e beve l’arsa arena.
     Pur questa è lieve pena:
     Sol può forse di Tizio il duro scempio
     Esser d’invido affetto ombra ed esempio.
Ei di ferree catene avvinto giace,
     65E la gran valle inferna
     Col busto altier tutta ingombrar rassembra.
     Stillan sanguigni umor l’aperte membra;
     Mentre ne la più interna
     Parte palpita il cor troppo vivace:
     70Quivi il rostro vorace
     Immerge avidamente augello infame,
     Ch’ha in eterna pastura eterna fame.
De le viscere appena ci resta privo,
     Che con novi natali
     75Nel lacerato sen germoglia altr’esca.