Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
dialoghi dei morti. | 293 |
Polistrato. Altro: e di quelli che sono il fiore della città. Tutto che vecchio e calvo, come mi vedi, e cisposo ancora, e pieno di catarri, essi mi facevan le più liete carezze; e chi tra loro aveva pure un mio sguardo, si teneva beato.
Similo. Forse anche tu, come Faone, menasti da Chio qualche Venere, la quale a tue preghiere ti fece tornar giovane e bello ed amabile?
Polistrato. No, io ero come ero, e mi desideravano.
Similo. Tu parli con enigmi.
Polistrato. E pure è conosciuto il grande amore che si mostra ai vecchi senza prole e ricchi.
Similo. Capisco ora qual era la tua bellezza: avevi Venere d’oro.
Polistrato. Eppure, o Similo, io non ho goduto poco per quegli amadori, che quasi m’adoravano: io spesso per capriccio mi mostravo ingrognato, ne scacciavo alcuni, ed essi gareggiavano e facevano a chi più mi dovesse stare in grazia.
Similo. Infine come disponesti del tuo?
Polistrato. A ciascuno io dicevo e promettevo di lasciarlo mio erede: e quei credevalo, e cresceva doni e carezze: ma nel mio vero testamento li mandai tutti alla malora, e scrissi che dovessero piangere.
Similo. Dopo che tu moristi chi fu tuo erede? forse qualche tuo congionto?
Polistrato. No, per Giove, ma un leggiadro garzonetto frigio.
Similo. Che età aveva costui?
Polistrato. Quasi intorno a vent’anni.
Similo. Ora capisco i doni ch’egli ti faceva.
Polistrato. Ma più di loro egli meritava l’eredità, quantunque barbaro e cattivo. Egli dunque fu mio erede: e già i principali cittadini gli van roteando intorno: ora è già annoverato tra i patrizi; e con le gote rase, e parlando barbaro, già si tiene più nobile di Codro, più bello di Nireo, più sennato di Ulisse.
Similo. Non m’importa se anche ei comandasse la Grecia; purchè quelli non abbian toccata l’eredità.