Pagina:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 2.djvu/61

Da Wikisource.

53


XXII.

Z E U S I,

o

ANTIOCO.



Giorni fa poi ch’io vi diedi quel saggio d’eloquenza, e me ne tornavo a casa, mi si accostarono parecchi che mi avevano udito (oh! credo che posso liberamente parlar di questo con voi che già mi siete amici), mi si accostarono, e presomi per mano si congratulavano meco, e se ne mostravano maravigliati. Accompagnandomi per molto tempo, chi di qua chi di là, esclamavano e mi lodavano, sino a farmi arrossire di quelle lodi che erano troppe, ed io non le meritavo. La più gran cosa per loro, ed alla quale tutti applaudivano, era una, la maniera di scrivere tutta nuova e bizzarra. Anzi voglio ripetervi proprio le loro parole: Che novità! Per Ercole, che mirabile diceria! Che facile inventore! Chi potria dire cose più bizzarre! E molte altre simiglianti ne dicevano, secondo che ciascuno era stato colpito nell’ascoltare: che quale altra cagione avriano avuto di mentire, e di adular così un forestiere, che per loro non è un uomo di gran conto in tutt’altro? Ma io, a dirvi il vero, sentivo non poco dispetto a quelle lodi; e poi che in fine se n’andarono ed io rimasi solo, pensavo tra me: Dunque questo solo è di bello nelle cose mie, che non sono ciarpe vecchie, che non è roba usata? e di parole acconce e collocate secondo la regola degli antichi, e di acutezza di pensieri, e di certo fine accorgimento, e di grazie attiche, e di armonia, e di ogni altro artifizio non ce n’è nulla affatto? se no, costoro non avrebbero tralasciato questo, e lodata la maniera nuova e bizzarra. Io, sciocco me! credevo che quando si sbracciavano a lodarmi erano stati dilettati appunto