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LIII.

DICERIA,

o

BACCO.



Quando Bacco menò l’esercito in India (m’è permesso, cred’io, di contarvi anche una favola Bacchica), dicesi che gli uomini di quei paesi da prima lo disprezzavano tanto che ridevano di quella venuta, anzi avevano pietà di quell’ardire, credendo che tosto ei saria stato pesto dagli elefanti, se si fosse ordinato a battaglia. Avevano forse udito raccontar dagli esploratori strane cose di quell’esercito; che la falange e le squadre erano composte di femmine pazze e furiose, coronate di edera, vestite di pelle di cerbiatti, con in mano certe asticciuole senza ferro ed anche invogliate di edera, e certe rotellette leggiere, che davano un rimbombo come pur si toccavano (che pigliavano i timpani per scudi); e fra esse alcuni pochi villanotti nudi, che menavano un ballonchio, e avevano le code e le cornette come quelle de’ cavretti testè nati. E che il capitano di questo esercito andava sovra un cocchio tirato da due pantere, era uno sbarbatello, senza neppure le prime calugini alle gote, con le corna coronate di grappoli, con la mitra avvolta alle chiome, in veste di porpora, e calzarin dorato: e aveva due luogotenenti; uno vecchietto, basso, grassotto, panciuto, rincagnato, con orecchi lunghi e ritti, barcollante, appoggiantesi ad una ferula, spesso a cavallo ad un asino, in gamurra gialla, e questi era un molto gradito suo generale. L’altro, uno strano figuro, dal mezzo in giù simile ad un becco, con le gambe vellose, le corna in capo, una lunga barba, cruccioso e impetuoso, portante nella mano sinistra una siringa, e con la destra brandendo un bastone ricurvo, andava saltabeccando per tutto l’esercito: