Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo III.djvu/403

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LIBRO TERZO 393

ed effeminatezza adducendo come per lo passato a sollievo degli altrui mali avesse tolta da magnanimo e prode la tirannide, e addivenuto padrone di Gontari con proprio danno lo morisse di sua mano, affatto immemore d’uccidere un amico e commensale; ora poltrire fiaccato da vile timore, lasciando che sia consunta la patria da straordinarie gravezze a sostentamento de’ continui presidj. Nè taceva la violenta morte data al padre di lui sotto menzognera accusa di tradigione, ed il servaggio e lo sperperamento per tutto l’orbe imperiale dell’intiero parentado; nondimeno passarsela egli contento del titolo di maestro della romana milizia e dell’altro, ben vano, di consolare. «Tu in mia fe, proseguiva, non compassioni punto un consanguineo vittima di cotanti mali; io in cambio, o uomo illustre, attristomi delle tue sciagure in causa di donne, toltati vituperosamente l’una, e l’altra mal tuo grado restituita. Non fia dunque che alcuno, comunque tu vuoi di pochissima levatura, ritraggasi o per vigliaccheria o per timore dallo spegnere Giustiniano, solito a dimorare senza guardie co’ vecchi sacerdoti nel Museo, e tutto intento a ravvolgere i sacri codici de’ Cristiani.» Quindi conchiudeva: «Nè avrai oppositori tra’ parenti suoi, anzi Germano, il più potente di tutti, molto volontieri, a mio avviso, colla prole di già sul fiore degli anni, piena di fuoco inseparabile da quella età ed invidiosissima di lui, ti porgeranno aiuto: eglino di ottimo animo, se pur la speranza non mi tradisce, piglieranno le nostre parti; sin da ora così ricolmi d’ingiurie dall’Augusto, che nè altri di noi, nè Ar-