Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo III.djvu/590

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580 GUERRE GOTTICHE

perto il petto, nè più vi volle perchè, trafitto da fortuito dardo, tramandasse incontamente l’ultimo fiato. Parecchi Romani allora inalzatone sopra un’asta il capo ivano mostrandolo ad ambo gli eserciti, all’uno, il proprio, per animarlo vie meglio in quel cimento, all’altro per indurlo a cessare, uscito d’ogni speranza, dalla pugna. I Gotti non di meno, quantunque sapevoli dell’avvento, insino a notte combatterono, tenendosi quindi le due fazioni per l’intero corso di lei armate sul campo. Del dì vegnente surgono ai primi albori ed ordinato l’esercito ripigliano a battagliare infino a notte, ostinatisi tutti a non cedere, o dare altrui le spalle, nè a rinculare, avvegnachè gravissima ed eguale da ambe le parti si fosse la strage; accesi per lo contrario da terribile sdegno infervoransi maggiormente a durare la contesa. Erano più che certi i Gotti di sostenere l’estremo aringo, ed i Romani credeansi disonorati piegando loro innanzi. Alla fin delle fini ecco arrivare a Narsete alcuni ottimati barbari significandogli aver eglino che fare col Nume; ben accorgersi da superiore nemica potenza essere fatti segno di tanti mali, ed averne irrefragabile pruova dall’accaduto; il perchè bramavano da quinci in poi deporre le armi non già per divenire imperiali mancipj, ma per vivere obbedendo, come altre genti, alle proprie leggi. Pregavanlo adunque che accordasse loro una tranquilla partenza, nè avesse a schifo di trattarli benignamente; in cambio poi del viatico addimandavano la restituzione della pecunia da essi lasciata in serbo negli italiani fortilizj. Narsete deliberava sulla proposta quando venne persuaso