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per allontanare dal Trono la paventata verità, umile e pronta a qualunque mezzo, ancorchè turpe ed indecoroso, dove giovi a conciliar favore, superba dopo l’intento, e fiera a conculcar l’oppresso merito: quella invidia stessa poco mancò che non deprimesse il Montecuccoli, che non potesse ella sola quello, che nè gli indomiti Svedesi, nè gli impetuosi Ottomani, nè la scienza e l’accorgimento del gran Turenna avevano potuto. Pur la luce e la forza del merito di Raimondo fu così splendida e vigorosa, che le armi della invidia non produssero lungo effetto e durevole, cosicchè egli, a malgrado de’ colleghi suoi, trionfò assai volte nel campo, trionfò similmente, ad onta degli emuli, alla Corte; dove, quando la sua persona dalle ferite, da’ disagi e dagli anni debilitata, non gli permetteva di condurre eserciti, ei nondimeno dalla prima sede del consiglio di guerra ne fu legislatore e giudice supremo. Nel qual grado, non mai disgiunto dal suo signore Leopoldo Cesare, ei morì, seguendolo in Lintz l’anno del secolo ottantesimo primo, e della età sua settantesimo terzo.
Il suo sepolcral monumento si illustrò di tanti titoli, quanti mai possono adunarsi in un privato, se privato può dirsi quegli, che il sublime Collegio dell’Imperio annoverò tra’ suoi Principi. Su la sua tomba pianse la Milizia un Capitano, nel quale convennero la prudenza di Fabio, la fermezza di Scipione e la celerità di Cesare: la religione l’osservator più leale del suo culto e de’ suoi