Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/155

Da Wikisource.

appendice al capitolo terzo 149

plesso de’ materiali, con delle sintesi sostituite alla ricerca de’ fatti, sintesi non discusse, ma poste semplicemente come osservazioni d’un altro scrittore, e nemmeno precise, si possa ridurre a brevi termini la situazione d’un popolo, in un’epoca caratteristica, come quella della convivenza d’un altro popolo nello stesso paese, per effetto della conquista; o, per dir meglio, in un’epoca qualunque, giacchè tutte l’epoche sono caratteristiche, e que’ mezzi non sono buoni in nessun caso. Non vogliamo certamente negare (e sarebbe negare uno de’ più manifesti come de’ più felici effetti dello studio) che si possa qualche volta con una notizia, anche piccola riguardo a sè, dare un nuovo lume a un complesso intero, nè che ciò riesca più facilmente ai grand’ingegni. Ma riesce quando s’abbia presente quel complesso, quando s’abbiano lì raccolte e preparate le cose che devono ricever quel lume. E infatti, vedete come quelli a cui riesce davvero si diano premura di farvi osservare le relazioni della loro scoperta con questa e con quella parte del complesso, col complesso intero, di dimostrarvi prima di tutto come essa s’accordi con ciò che già si sapeva di certo, e poi come lo rischiari e lo accresca. I grand’ingegni corrono dove noi altri non possiamo se non camminare; ma la strada è una sola per tutti: dal noto all’ignoto. La prerogativa di veder più lontano degli altri non è una dispensa dal guardare. Il poco può servire, in qualche caso, a spiegare un tutto, ma non mai a farne le veci; e quando non s’attacca al molto, il poco, o non è altro che ciò che tutti sanno, o risica molto d’esser cose in aria. E questo, in ogni materia come nella storia, perchè il metodo, in ultimo, è uno per ogni cosa. La verità e l’errore hanno due maniere di procedere opposte e costanti, qualunque sia l’oggetto: sono come due orditi ben diversi, sui quali si possono tessere due indefinite varietà di tele. Quindi gli errori di metodo sono sempre gravi, quando ci sia pericolo d’imitazione. Certo, non può esser altro che un piccolissimo inconveniente l’ingannarsi sulle questioni puramente storiche, trattate dal Romagnosi ne’ luoghi che abbiamo esaminati: ma se la maniera con cui le ha trattate venisse, e per la sua facilità, e per la fiducia che ispira l’esempio, applicata a materie importanti e feconde di conseguenze pratiche, produrrebbe naturalmente inconvenienti proporzionati a quell’importanza medesima.

Dopo aver giustificata la libertà che abbiamo usata fin qui, dobbiamo usarne ancora un momento nell’esaminare la conclusione che abbiamo trascritta. Se fosse veramente una conclusione, non avremmo a far altro che rimettere il giudizio a chiunque abbia avuta la pazienza di leggere queste osservazioni; ma c’è qui qualcosa di particolare, e che ne richiede una nova. Per conclusione, in materia di ragionamenti, s’intende sempre qualcosa che risulti da ciò che s’è dimostrato e, per conseguenza, trattato. Ora, noi troviamo qui una proposizione nova, inaspettata, che salta fuori non si sa di dove, cioè che gli Scabini, de’ quali parla Lotario, fossero corrispondenti ogli Sculdasci longobardi. È forse una di quelle cose note e certe, che, all’occorrenza, basta rammentare? Tutt’altro. Se non c’inganniamo, fu messa la prima volta in campo dal Sismondi, il quale l’affermò incidentemente, e senza prova veruna, in due luoghi della Storia delle repubbliche italiane. In una nota a un passo dove tratta del governo de’ re Carolingi in Italia, dice: «I re de’ Franchi usarono di preferenza il nome di Scabini o Schöppen, e i re longobardi quello di Sculdaesi (Schulteiss) 1.» E altrove, parlando de’ municìpi e d’Ottone I: «Le città avevano sempre avuti de’ magistrati popolari, chiamati Schul-

  1. Chap. II; Tom. I, pag. 75; Paris, 1809.