Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
capitolo quarto | 161 |
Infatti, essendo i Longobardi padroni del paese, soli Legislatori in quello, arbitri in gran parte, e senza contrasto, del destino della popolazione indigena, il punto più importante della loro morale, la materia principale del giudizio che se ne deve portare, è la loro condotta verso la classe numerosa de’ vinti. La tentazione d’essere ingiusti doveva esser grande in proporzione della facilità, dell’impunità, e del profitto; e, secondo la natura comune degli uomini, non solo l’azioni, ma l’idee e le teorie morali potevano facilmente accomodarsi a queste circostanze. Per chiamar buoni o tristi i Longobardi, bisognerebbe dunque cercare se hanno ceduto a questa tentazione, o se è stato più forte in loro l’amore della giustizia. Ma col supporre i vincitori e i vinti diventati una cosa sola, gli scrittori moderni, hanno escluso questa ricerca, e tirato così un velo sulla parte più importante e più vasta della questione.
Di più, anche per giudicare la moralità de’ Longobardi nelle loro relazioni tra di loro, il fatto dell’essere le due nazioni rimaste divise, è tutt’altro che indifferente. Chè, per dichiarar virtuoso un sentimento, un atto qualunque, non basta riconoscerci qualche carattere di sacrifizio, o d’austerità, o di benevolenza; bisogna guardar prima se non è opposto ai doveri della giustizia e della carità universale. Ora, ci sono delle circostanze nelle quali, per mantenere l’ingiustizia, sono appunto necessarie alcune di quelle disposizioni d’animo, le quali per sè sarebbero virtuose. Dalla repubblica di Sparta fino alle compagnie d’assassini, tutte le società che hanno voluto godere di certi beni e di certi vantaggi a spese d’altri uomini, non hanno potuto mantener l’unione tanto necessaria, che col mezzo di sacrifizi delle passioni private, con un’equità rigorosa tra i soci, e con una severità, con una fiducia, con un’affezione, qualche volta eroica. Essere iniquo con tutti non è concesso a nessuno; e senza un po’ di virtù non si fa nulla, in questo mondo.
Posto ciò, si vede anche subito quanto manchi a un altro argomento addotto da molti panegiristi de’ Longobardi, e che riferiamo con le parole d’uno de’ più celebri. «I Pontefici Romani, e sopratutti Adriano, che mal potevano sofferirgli nell’Italia, come quelli che cercavano di rompere tutti i loro disegni, gli dipinsero al Mondo per crudeli, inumani e barbari; quindi avvenne che presso alla gente, e a gli Scrittori dell’età seguenti, acquistassero fama d’incolti e di crudeli. Ma le leggi loro cotanto saggie, e giuste, che scampate dall’ingiuria del tempo, ancor oggi si leggono, potranno essere bastanti documenti della loro umanità, giustizia, e prudenza civile. Avvenne a quelle appunto ciò, che accadde alle leggi Romane: ruinato l’Imperio non per questo mancò l’autorità, e la forza di quelle ne’ nuovi dominj in Europa stabiliti: rovinato il Regno de’ Longobardi, non per questo in Italia le loro leggi vennero meno 1.» Così la bontà de’ costumi sarebbe provata dalla bontà delle leggi, e la bontà delle leggi, dal loro sopravvivere alla conquista.
Questo secondo argomento è messo di novo in campo dal Giannone, poco dopo. «L’eminenza,» dice, «di queste leggi sopra tutte le altre delle Nazioni straniere, e la loro giustizia e sapienza potrà comprendersi ancora dal vedere, che discacciati che furono i Longobardi dal Regno d’Italia 2, e succeduti in quello i Franzesi, Carlo Re di Francia, e d’Italia
- ↑ Giannone, Ist. Civ. Lib. 5, cap. 4, alla fine.
- ↑ Discacciati i Longobardi? Il Giannone volle dire sicuramente: i re longobardi; come, per regno d’Italia, dovette intendere il regno de’ Longobardi; e come, dicendo: rovinato il regno, dovette intendere: cambiata la dinastia, e stabiliti nel regno, con diritti uguali a quelli de’ Longobardi, alcuni de’ Franchi venuti col loro re.