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184 discorso storico

decidere a quale delle due cause debba darsi il voto, non dirò d’ogni Italiano, ma d’ogni amico della giustizia.

Roma e l’altre parti d’Italia non conquistate da’ Longobardi, e possedute ancora, o con vero esercizio di potere o in titolo, dagl’imperatori greci, furono nell’ottavo secolo, quasi ogni momento, invase, o corse, o minacciate da quelli. Gli ultimi loro re, Liutprando e Ildebrando, Ratchis, Astolfo, Desiderio, fecero, chi una, chi due, chi più spedizioni sul territorio romano, assediando qualche volta Roma, e facendo sempre bottino, e stragi. Quali erano per gli abitanti i mezzi di difesa? L’impero, spesso distratto in altre guerre, e certo, nè più forte, nè meglio governato di quando aveva lasciato invadere l’altra parte d’Italia, non poteva, da sè, difender meglio il resto: e un esempio segnalato della sua debolezza si vide quando, essendo il territorio di Ravenna invaso da Liutprando, l’esarca Eutichio non seppe far altro che pregare papa Zaccaria, che implorasse dal re longobardo la cessazione delle ostilità 1. I Romani erano quali gli aveva preparati di lunga mano la viltà fastosa, e l’irresolutezza arrogante de’ loro ultimi imperatori, la successione e la vicenda dell’invasioni barbariche, il disarmamento sistematico e l’esercizio dell’arti imbelli, in cui furono tenuti da’ Goti, la dominazione greca, forte solamente quanto bastava ad opprimere; erano quali gli avevano fatti de’ secoli d’inerzia senza riposo, di dolori senza dignità, di stragi senza battaglie; secoli in cui per far diventar il nome romano un nome di disprezzo e d’ingiuria, quelli che lo portavano, sostennero più severe fatiche, più rigorose privazioni, più inflessibili discipline, chè i loro antenati, per renderlo terribile e riverito all’universo. Senza ordini militari, senza condottieri illustri, senza memorie di gloriosi fatti recenti, e quindi privi di quell’animo che in gran parte è il frutto di tutte queste cose, come avrebbero potuto resistere all’impeto di quelle bande che nelle città conquistate avevano ritenuta la disciplina dell’antiche foreste, che avevano imparate con la prima educazione l’arti dell’invasione, e che vedevano ne’ Romani piuttosto una preda che un nemico? Tutto era dunque per questi scoraggimento, gemito, disperazione. Anastasio parla, è vero, in varie occasioni, dell’esercito romano; ma quanto e quale fosse, si può arguire dal vedere che ne’ momenti gravi, quel po’ di fiducia, si fondava sempre o sulle suppliche o sull’aiuto straniero. Quando un popolo è venuto o portato a questa condizione, non ha più nulla a sperare, nemmeno la compassione e l’interessamento della posterità. Austeri scrittori, seduti accanto al loro fuoco, lo accusano davanti a questa con ischerno e senza pietà: e tale è l’avversione loro per la viltà di esso, che non di rado scusano, lodano i suoi persecutori, li guardano quasi con compiacenza, purchè nel carattere di essi ci sia qualcosa di aspro e di risoluto, che denoti una tempra robusta. Eppure il più forte sentimento d’avversione dovrebb’essere per la volontà che si propone il male degli uomini: e per quanto profondamente essi siano caduti, un senso di gioia deve sorgere nel cuore d’ogni umano, quando veda per essi nascere una speranza di sollievo, se non di risorgimento.

Questa speranza i Romani non potevano averla in altri che ne’ pontefici. Roma, così incapace per sè di farsi temere, aveva nel suo seno un oggetto di venerazione, e qualche volta di terrore, anche per i suoi nemici, un personaggio per cui verso di essa si volgeva da tanta parte di mondo uno sguardo di riverenza e d’aspettazione, per cui il nome romano si proferiva nell’occasioni più gravi. E mentre le ragioni di

  1. Anastas. in Vita Zachariae; Rer. Ital., Tom. III, pag. 162.