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capitolo decimoquinto 515

Così «la pietà è utile a tutto, avendo con sè la promessa della vita presente e della futura1

Posto ciò, si dovrà dire che, in quelli a cui una tale ricompensa è stata annunziata, il non proporsela per motivo, non che aggiunger perfezione alla virtù, non può nascere che dal disprezzo di questa perfezione medesima, essendo essa inseparabile dalla ricompensa medesima, cioè dal gaudio celeste; il quale, per ripeter la cosa con parole e più autorevoli e migliori delle mie, «non è altro che il colmo, la soprabbondanza, la perfezione dell’amor di Dio2,» val a dire della virtù che sovrasta a tutte, e le comprende tutte.

Che, tra i gentili, i quali non avevano cognizione di questo Bene, ma solo de beni temporali , alcuni abbiano pensato che ogni ricompensa sia indegna della virtù, non c’è da maravigliarsene. È piuttosto una cosa degna d’osservazione, che, col solo lume naturale, siano arrivati a vedare la verità, sulla quale formarono questo loro errore. Nel confuso, tronco e, dirò così, acefalo concetto che avevano della virtù, videro, dico, una relazione speciale di questa con l’infinito; e ne dedussero che nessun bene finito poteva esser per essa materia di compensazione. E, dopo averla spogliata così d’ogni premio, dovendo però riconoscere che premio e virtù sono idee correlative, e che ciò che forma questa relazione tra di loro è l’idea di giustizia, troncarono il nodo col dire che la virtù è premio a sè stessa. Parale più vere del pensiero che esprimevano; perchè, nella loro generalità, comprendono il concetto intero, e di virtù e di premio, che non era nella mente di chi le metteva insieme; cioè il concetto di quella virtù, e di quel premio, che non si realizzano se non nell’altra vita, e per il possesso di Dio. Potrebbbe bensì parer più strano, che, anche nella luce del Vangelo, alcuni abbiano potuto immaginarsi una maggior perfezione della virtù, e della virtù cristiana, nell’escludere da’ suoi motivi ogni ricompensa. Ma l’ingegno umano può abusare delle verità rivelate, come di quelle che conosce naturalmente. Essendo l’annegazione, e il disprezzo de’ piaceri, il precetto continuo, e lo spirito del Vangelo, s’è potuto voler estender quest’annegazione anche alla vita futura, applicando, con un accecamento volontario, le qualità de’ beni che Gesù Cristo c’insegna a disprezzare, al bene proposto da Gesù Cristo medesimo. Una dottrina così opposta alla sua e, per necessità, alla retta ragione, fu come doveva essere, condannata dalla Chiesa3

  1. Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ quæ nunc est, et futuræ. I Tim. IV, 8.
  2. Non pas méme sur les joies du Paradis, quoique ces joies du Paradis ne soient autre chose que le comble, la surabondance, la perfection de l’amour de Dieu! Bossuet Instruction sur les états d’oraison, III, 5; dove confuta la strana proposizione, che un’anima arrivata, nella vita presente, a un certo grado di perfezione, est dans une si entière désappropriation, qu’elle ne sauroit plus arrêter un seul dèsir sur quoi que ce soit.
  3. Tale fu, come è noto, la dottrina sulla quale disputarono il Fenélon e il Bossuet. Il nome de’ due gran contendenti ha attirata spesso l’attenzione de’ loro posteri su questa controversia; e i giudizi che se ne fecero, sono molti e vari: il meno sensato di questi mi pare quello che la dichiara una questione frivola.
    Questa è l’idea che ne volle dare il Voltaire (Siècle de Louis XIV, Chap. XXXVIII, du Quiétisme). Certo, se ogni ricerca sulle ragioni di volere, e sui doveri, e sul modo di ridurre tutti i sentimenti dell’animo a un centro di verità, si riguarda come frivola, tale sarà anche questa, poiché è di quella categoria. Ma in quel caso, quale studio sarà importante all’uomo? I filosofi che vennero dopo il Voltaire continuarono a trattar questo punto di morale, benchè in altri termini, e lo considerarono come fondamenrale (V. tra gli altri «Woldemar par Jacobi, trad. de l’allemand par Ch. Wanderbourg.» T. I, pag. 151 e seg.). Le controversie sulla relazione dell’interesse con la morale, sull’amore della virtù per sè stessa, si riducono, nella parte essenziale a quella del Quietismo; a decidere cioè, se il motivo della propria felicità deva entrare nelle determinazioni virtuose. Senonchè, nelle dispute su questa materia, chiamate a