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514 osservazioni sulla morale cattolica

gione, e quanto sia opposto ad essa il supporre che il motivo d’una ricompensa, di qualunque genere sia, possa, per sè, detrarre alla perfezione e al merito dell’azioni virtuose. Illusione, nella quale sono caduti anche degli ingegni tutt’altro che volgari; e dalla quale, se è lecito il dirlo, è venuto il rimprovero fatto dall’illustre autore all’insegnamento cattolico sui motivi dell’elemosina.

La virtù, si dice, è tanto più pura, più nobile, più perfetta, quanto più è disinteressata. Sentenza verissima, quando alla parola «disinteresse» s’applichi un concetto giusto e preciso. Per disinteresse s’intende in astratto, e un poco in confuso, la disposizione a rinunziare a delle utilità. E cos’è che fa riguardare come bella questa disposizione, come ignobile, o meno nobile, la disposizione contraria? In primo luogo, l’essere, in molti casi, un’utilità d’un uomo opposta a un’utilità d’un altro, o d’altri; dimanierachè il rinunziare a quella sia posporre un godimento privato alla benevolenza; sentimento più nobile, per consenso universale; anzi il solo de’ due, al quale s’attribuisca questa qualità. L’altra cagione è il consenso divenuto comune dopo il Cristianesimo (quantunque più o meno avvertito e ragionato), che tutte l’utilità nelle quali è unicamente contemplato il godimento di chi le acquista, sono d’un prezzo inferiore a quello della virtù: d’onde viene che il non proporsi alcuna di esse, o in altri termini alcuna ricompensa, come motivo, nemmeno accessorio, d’un’azione virtuosa, è avere una giusta stima della virtù, e riconoscere col fatto, che essa è un motivo sufficiente, anzi soprabbondante, di qualunque azione. Ragioni vere, ma che non sono intrinseche all’idea stessa di ricompensa; e non si possono quindi applicare a ogni genere di ricompensa, se non per uno di que’ sofismi che scappano così facilmente nelle conclusioni precipitate. Considerata in astratto, l’idea di ricompensa non è altro che quella d’un bene dato al merito, cioè l’idea d’una cosa, non solo bona e giusta, ma la sola bona e giusta: nel caso, s’intende, d’un vero merito e d’una vera ricompensa. Si supponga quindi una ricompensa, contro la quale non militi nè l’una nè l’altra di quelle due ragioni; e il proporsela per motivo non potrà levar nulla alla nobiltà dell’azioni e de’ sentimenti; il non proporsela (senza cercare ora come deva qualificarsi), non potrà meritare l’onorevole qualificazione di disinteresse.

Di questo genere appunto, anzi l’unica di questo genere, è la ricompensa di cui si tratta. Essendo infinita, non può essere da verun uomo ceduta a verun altro, come il goderla non può mai essere a scapito di verun altro. E non può nemmeno essere inferiore in dignità alla virtù, poichè, non è altro che il più perfetto esercizio della virtù medesima.

Infatti, cosa intende il cristiano per il bene dell’anima sua? Riguardo all’altra vita, intende, una felicità di perfezione, un riposo che consisterà nell’esser assolutamente nell’ordine, nell’amar Dio pienamente, nel non avere altra volontà che la sua, nell’esser privo d’ogni dolore, perchè privo d’ogni inclinazione al male. «Beati», disse la sapienza incarnata, «quelli che hanno fame e sete della giustizia; perchè saranno satollati»1; che è quanto dire: saranno eternamente giustissimi.

E riguardo alla vita presente, il cristiano intende una felicità di perfezionamento; che consiste nell’avanzarsi verso quell’ordine. Felicità non intera, certamente; ma la maggiore, come la più nobile, che si possa godere in questa vita; felicità che nasce da quella stessa fame e sete, accompagnata dalla speranza che conforta, e dalla carità che fa pregustare.

  1. Per questa ragione, si chiamano spesso indifferentemente, santi, o beati, quelli che possiedono la vita eterna.