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appendice al capitolo terzo 559

subordinare in fatto uno stesso intiero ordine d’idee e d’azioni a due princìpi, quand’anche fossero due verità; dev’esser anche troppo facile che chi ha detto di volerlo fare, dica il contrario in un altro momento. Così è avvenuto nel caso presente. Nello stesso scritto, e nello stesso paragrafo, l’autore citato dice espressamente: «Il solo principio dell’utilità prescrive e proibisce (di credere e d’operare), perchè ne deve resultare o del bene o del male.» Cedeva, in quel momento, all’esigenza della logica, ma insieme all’esigenza del sistema, il quale non ha la sua forma apparente e il suo nomen habes quod vivas1, se non da una tale esclusività. E per far credere a sè stesso di poter mettere insieme due cose tanto contrarie, fu ridotto a attribuire espressamente la forza di prescrivere o di proibire all’utilità, la quale può bensì essere un motivo di fare o di non fare, ma non contiene nella sua essenza nulla, nulla affatto d’imperativo; e a negar virtualmente quella forza alla giustizia, la quale, o prescrive e proibisce davvero, o è una parola senza senso, e quindi da non ammettersi, né sola, nè in compagnia.

«Quando il bene prodotto diventa la preda di chi non ci ha alcun diritto», prosegue lo stesso autore, applicando alla morale il linguaggio dell’economia politica, «è prodotta un’ingiustizia; ora, ogni ingiustizia è un male (qui nel senso di danno), prima per chi ne patisce, e poi per la società, perchè disanima dal fare il bene, è contraria a ciò che aumenta la somma de’ beni, e insieme aumenta la somma de’ mali.»

Diritto? Ecco un’altra di quelle parole che il sistema non può accogliere impunemente. Certo, il diritto ha per oggetto o, dirò così, per materia un bene; ma non è, nè dalla natura, nè dalla quantità di questo bene, che nasca il diritto: tanto che, per servirci delle parole stesse dell’autore, un bene medesimo che per uno è materia di diritto, non è per un altro, che una preda. Il diritto, per conseguenza, porta con sè, dovunque e in qualunque maniera sia introdotto, una ragione sua propria che non lascia luogo a verun’altra; giacchè, o è anch’esso un vocabolo senza forza, e perchè metterlo in campo? o ha una forza, e è quella di prescrivere. E fitto questo, non rimane più ad altro nulla da fare.

Ogni ingiustizia è un male. Senza dubbio; ma quando si sa questo, che bisogno c’è di cercare un’altra norma per giudicare e per regolarsi, riguardo all’azioni dov’è interessata la giustizia? Che bisogno c’è di buttarsi nell’avvenire, per indovinare l’utilità o il danno che verrà da una azione, quando c’è un mezzo di saperlo, cioè il suo esser giusta o ingiusta? Con questa concessione, che non è, certo, esorbitante, e che era anzi naturalissima dalla parte d’un uomo onorato come fu l’autore che citiamo, viene a riconoscere che quand’anche l’utilità fosse quella che costituisse la moralità dell’azioni (il che non si vuol, certo, concedere), il criterio della moralità di esse si dovrebbe prendere dall’Idea della giustizia. Tanta, e così rigogliosa e rinascente è la forza de’ vocaboli che rappresentano dei veri princìpi, e de’ princìpi altissimi, come questo!

Non voglio dire che producano necessariamente e sempre un tale effetto. In un altro luogo di quel medesimo Saggio sul principio dell’utilità, l’autore dice solamente che, tanto nelle cose pubbliche, quanto nelle private, l’onesto è quello che c’è di più utile; e che, se si può citar qualche caso in cui un’azione contraria alla giustizia sia riuscita in profitto del suo autore, o de’ suoi autori, se ne può citare dieci volte tanti del contrario. E da questo conclude che «bisogna governarsi secondo il successo più probabile, cioè più sicuro e costante, malgrado alcuni esempi con-

  1. Joan. Apoc. III, 1.