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600 | dell’unità della lingua |
esso potuta esercitare la sua naturale attività ed efficacia, è avvenuto per la mancanza di circostanze favorevoli, senza però, che una tale mancanza abbia potuto farlo dimenticare, nè renderlo affatto inoperoso; e che questa sua debole attività è quella che ha data occasione ai tanti sistemi che hanno potuto sovrapporglisi come le borraccine e i licheni a un albero che vegeti stentatamente.
Questo mezzo, indicato dalla cosa stessa, e messo in evidenza da splendidi esempi, è: che uno degl’idiomi, più o meno diversi, che vivono in una nazione, venga accettato da tutte le parti di essa per idioma o lingua comune, come piace di più; giacchè la differenza fra questi due termini, è puramente nominale, come resulterà da più d’un luogo di questo scritto, senza che ci sia bisogno d’una dimostrazione diretta.
Abbiamo detto che un tal mezzo è indicato dalla cosa stessa; e infatti per sostituire una cosa a molte, nulla si può immaginare di più adattato e vicino all’effetto, che il prendere una cosa della stessa natura di quelle, formata nello stesso modo, vivente d’una vita medesima, come sono appunto gl’idiomi tra di loro.
Abbiamo anche accennati degli splendidi esempi, e ne toccheremo due splendidissimi; e per il primo, quello della lingua latina, che basta nominare perchè corra alla mente quale e quanta potè essere, e in quante parti diffondersi. E ognuno sa che non era ricevuto per latino se non il linguaggio usato in Roma.
L’altro esempio è quello della Francia, dove, più o meno esplicitamente ma per un concorso di fatti, la lingua di Parigi è riconosciuta per la lingua della nazione: consuetudine principiata dall’assunzione di Ugo Capeto al trono, sulla fine del secolo decimo, e che era già consolidata e diffusa nel duodecimo, cioè un buon pezzo prima che, tra di noi, si principiasse a disputare sul caso nostro. Il nome poi di lingua francese non le venne dall’esser diventata la lingua della nazione, come si crede comunemente; ma l’aveva già come suo proprio e particolare, per significare l’idioma di quel tratto di territorio che si chiamava l’Ile de France, e più usualmente la France, nel quale si trovava Parigi, e del quale era duca quell’Ugo che divenne il capo della terza dinastia. Insieme con la lingua, diventò comune il nome, il quale, per un incontro fortuito venne a quadrare al novo e grandioso destino di essa.
E non c’è da maravigliarsi che una tal lingua, avendo una unità da opporre alle tante e diverse unità degli idiomi viventi nella nazione, abbia potuto uscir di casa, piantarsi e vivere al loro fianco, occupar sempre un po’ più del loro posto e, se non bandirli affatto, accostarsi ogni giorno più a un tal resultato. Non c’è da maravigliarsi che, cresciuta a poco a loco col crescere de’ bisogni e delle occasioni, e per il progresso delle cognizioni, quella lingua abbia potuto, e principalmente per mezzo dei grandi scrittori del secolo decimosettimo, uscire anche dai confini della nazione e, presentandosi per tutto la stessa, con quell’identità di locuzioni che costituisce una lingua, e non impedisce, anzi rende possibile la varietà degli stili, diventare ogni giorno più famigliare alle persone còlte delle altre nazioni, essere il linguaggio della diplomazia, e come il turcimanno comune dell’Europa. E non c’è nulla più da maravigliarsi che una lingua tale abbia potuto dar materia a un vocabolario come quello dell’Accademia Francese, il quale, e appunto perchè rappresenta intero, per quanto è possibile, un uso vivo, e per sapiente e feconda semplicità del suo metodo, che dà il modo di raccogliere tutte, per dir così, le forme speciali d’una lingua, potè registrare una copia di locuzioni, maggiore, e di molto, a quella che si possa trovare nel più abbondante de’ nostri vocabolari. E vuol dire, riguardo al primo, locuzioni segnate d’uno stesso