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sulla lingua italiana 639

dizioni naturali e essenziali delle lingue, ha fatte nascere le tante teorie e pratiche opposte, ma ugualmente incapaci d’un resultato logico e utile. A uno stabile e fecondo consenso non s’arriverà, se non con l’intendere che, se si vuol trovare una lingua, bisogna cercare un Uso.

Dico con l’intenderlo; perchè, in quanto all’ammetterlo, non s’incontra difficoltà. È un fatto già notato, ma che conviene notar di novo e a ogni occasione, finchè non si muti; che que’ medesimi, i quali attribuiscono, in tanti casi particolari, un’autorità a tutt’altro che l’Uso, non lasciano in altre occorrenze di predicare in astratto il suo sovrano arbitrio, e di ripetere il si volet Usus, Quem penes arbitrium1, etc. Modo di ragionare che si può ridurre a questa formula: Tutto, ma non ogni cosa.

2. Ma quale è poi quello che, in fatto di lingua, si chiama l’Uso per antonomasia? giacché un tal termine, non solo nel suo significato più generale, ma anche in materia di lingua, può convenire a cose molto diverse. I gerghi, per esempio, sono usi anche loro, sono convenzioni che producono l’effetto di significare. E nondimeno nessuno li riguarda come lingue. E per qual ragione? Per queste due evidentemente: che non sono usati, che da alcune persone, e anche da queste per significare solamente alcune idee, servendosi per il rimanente, di vocaboli d’una lingua comune. E di qui, per opposizione, si può ricavare quale sia il vero e intero Uso delle lingue; cioè una totalità di segni prodotta da una totalità di relazioni, quale esiste, per effetto naturale, in una popolazione riunita e convivente: quod etsi saepe dictum est, dicendum tamen est saepius2.

3. Quindi (cosa ugualmente già detta, ma che occorre ripetere in questo luogo) in una nazione scompartita in popolazioni aventi idiomi diversi, non può un tale Uso esistere nè formarsi per effetto naturale e, dirò così, per generazione spontanea, non c’essendo la totalità di relazioni, necessaria a produrlo.

4. Ma, da un’altra parte, le lingue prodotte da questa causa propria e immediata, e formate per dir così, nell’officina medesima della natura, possono, con de’ mezzi supplementari, propagarsi in altri luoghi, e venire acquistate da popolazioni, come da individui, che non le possiedano naturalmente. Negare questa possibilità sarebbe un andar contro e alla ragione, la quale dimostra non esserci in essa contradizione veruna, e all’esperienza che ce la fa vedere realizzata in più fatti. Ragione e esperienza sono d’accordo qui, come per tutto, da quelle amiche vecchie, che sono.

5. «Uno poi de’ mezzi più efficaci, e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario3Id apertius exprimere non possum, quam si repetivero quod dixi4.

Che se all’evidenza c’è bisogno d’aggiunger qualcosa, dirò che i vocabolari sono un fatto comune a tutte le nazioni colte, e un espediente indicato dal senso comune. Tali lavori, infatti, presentando separatamente tutti (per quanto è possibile) i vocaboli e i modi di dire d’una lingua, imitano il processo analitico, per mezzo del quale, nella convivenza, s’acquista una lingua qualunque, sia dai bambini, sia da forestieri; e che consiste per l’appunto nell’imparare, a una a una, le locuzioni di cui è composta. Ho detto le locuzioni, perchè, oltre al raccogliere i vocaboli

  1. Horat. De Arte poetica, v. 72
  2. Cic. de Off. Lib. III.
  3. Relazione al sig. Ministro della Pubblica Istruzione, stesa da Alessandro Manzoni, e accettata da’ suoi amici e colleghi, Bonghi e Carcano.
  4. Senec. De Benef. VI, 35.