Pagina:Oriani - Vortice, Bari, Laterza, 1917.djvu/48

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Poi le abitudini lo riprendevano; tagliò la pagnottina nel mezzo dividendola a fette, avvicinò la candela, dispose la saliera, insinuandosi la punta del tovagliolo dentro il colletto, come usava pranzando cogli abiti che portava fuori di casa.

Il viso gli rimaneva lagrimoso.

Nella saletta tutto era al solito posto. La sua grossa pipa in legno, ricurva, di modello tirolese, stava sul camino presso alla scatola dei grandi zolfanelli bianchi, fatti con le cannuccie di canapa: nella credenziera di legno giallo, fra i bicchieri e le bottiglie, si vedevano i due vasetti cilindrici, dorati, colla scritta nel mezzo — caffè — zucchero — ; sotto, fra il coperchio e il cassettone di fondo, nel quale erano disposti i piatti coi vasi delle conserve sotto aceto e delle ciliege nello spirito, v’era il panierino da lavoro della moglie con due grandi lettere sanguigne, ricamate in lana. Presso il camino chiuso dal paravento, giacchè da quindici giorni in quella mitezza di stagione non vi si accendeva più il fuoco, i fascetti di vite e i ciocchi segati riempivano ancora il panierone, mentre il grande cavallo pezzato di Carlino, con una gamba rotta sino quasi alla spalla, dormiva rovesciato sopra una sedia, scoprendo le rotelle del proprio basamento orribilmente fuori di squadro. Egli si ricordò che una rotella era spaccata sino quasi all’asse.

Aveva già riconosciuto tutti quei piccoli segni della sua vita quotidiana.

Caterina, i bambini e la serva non dovevano aver mangiato che l’altra metà del pollo; egli conosceva bene il piccolo ingegno parsimonioso della moglie e la sua abilità nel rimpinzare i bambini dando loro poca carne.