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Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/100

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gnazione virile, che «sapere equivale talvolta a morire» e che «certi misteri è meglio non indagarli, perchè chi li avesse svelati non sarebbe più che un morto tra i viventi». Oltre i volumi di versi intitolati: «Balade și Idile» (Ballate e Idillii), «Fire de tort» (Fili di ritorto) e «Ziarul unui Pierde-vară» (Taccuino di un perdigiorni), il Coșbuc scrisse in prosa «Povestea unei coroane de oțel» (Racconto d’una corona d’acciaio) che contiene una breve storia del risorgimento nazionale romeno e moltissime traduzioni in versi dalle lingue classiche e moderne e persino dal sanscrito (Sacuntala) eseguite non sempre direttamente, ma aiutandosi con traduzioni tedesche.

Dal tedesco cominciò a tradurre anche la «Divina Commedia» per far cosa grata a suo padre, popa ortodosso, che, avendo sentito parlare del poema di Dante come di un viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba, desiderava, per un interessamento esclusivamente ecclesiastico, farsene un’idea. Ma, dopo tradotti (servendosi di una traduzione tedesca) alcuni canti dello «Inferno», che pubblicò nelle «Convorbiri literare», ci prese gusto, la potente personalità del nostro divino poeta lo conquistò ed allora si rese conto che era necessario imparar l’italiano ed a questo scopo si recò per qualche tempo a Firenze. Tornato in patria, rifece, servendosi questa volta del testo italiano, la traduzione dei canti già pubblicati dell’«Inferno», e, in quindici anni d’intenso e continuo lavoro, tradusse anche il «Purgatorio» e il «Paradiso», occupandosi nel contempo di studii danteschi. Un volume che cominciò a stampare in italiano rimase interrotto al 12° foglio di stampa e il manoscritto non si è più trovato fra le carte del poeta. Sono informato che è divenuto proprietà del signor Octav Minar, un collezionista e letterato dilettante cui dobbiamo anche le sole lettere di Eminescu e di Veronica Micle che si sien pubblicate e che ha salvate così da una quasi sicura dispersione. Il sistema ermeneutico del Coșbuc è alquanto stravagante. Egli nega la realtà di Beatrice (che, del resto, è realtà fino a un certo punto) e crede aver trovata (come da noi il Pascoli e il Valli) la «chiave» della «Divina Commedia», lasciandosi fuorviare dalle idee spesso paradossali dello Scartazzini, il cui commento, — pregevolissimo per l’epoca in cui vide la luce ed anche oggi in parte utile — Francesco D’Ovidio soleva paragonare