Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/99

Da Wikisource.

— 99 —

A un tratto s’interruppe, la lingua le era rimasta muta nella bocca,
e verso il bambino guardò a lungo disperatamente...
Era morto. Impietrita, restò dritta, col morticino in braccio,
e con gli occhi adirati guardò l’icona in faccia...
— Come? Non hai avuto, Vergine Santa, pietà del mio dolore?
Io poveretta piango, chiedendoti l’elemosina d’un tuo sguardo pietoso
e tu me lo fai veder freddo coi pugni stretti?...
Così ascolta il cielo le preghiere d’una madre?
Ogni speranza è morta e il tuo sguardo di legno
fiso su me stette senza darmi un segno
che la mia preghiera fosse esaudita e il mio dolor compreso!...
Eccoti anche il cadavere... com’esso sei inerte e muta!...

E con un lungo singhiozzo buttò il morticino in faccia alla santa icona
che con gran strepito d’un tratto cadde a terra.
E il dolore le si cambiò in cruda disperazione,
d’ira le sfolgoraron gli occhi e urlò in delirio:
— Oh certo non sei stata madre e, se porti un bimbo al seno,
è menzogna!... Che sciocca sono stata a inginocchiarmi davanti a un
[pezzo di legno! —
E, colpendo l’icona con un calcio: — È una menzogna! — ripetè e scoppiò in un riso selvaggio... era pazza!

(Alexandru Vlăhutză, All’icona. Trad. di Ramiro Ortiz).


Frequentatore delle riunioni delle «Convorbiri» e carissimo al Maiorescu fu un altro poeta di cultura preponderantemente tedesca: Gheorghe Cosbuc (1866-1918), che tradusse anche in magnifiche terzine la «Divina Commedia». Come tecnica e colore locale, le liriche del Coșbùc sono talvolta superiori a quelle dello stesso Eminescu, del quale però non raggiunge la profondità di pensiero, «Poeta dei contadini», come gli piaceva chiamarsi, il Coșbuc ne cantò non solo le aspirazioni materiali al possesso della terra, nella poesia intitolata «Noi vrem pământ» (Noi vogliam la terra), ma gli usi, i costumi e le leggende con una delicatezza di tocchi che ricorda i delicati e armoniosi colori dei ricami e dei tappeti popolari, raggiungendo in due de’ suoi poemetti: «Nunta Zamfirei» (Le nozze di Zanfira) e «Moartea lui Fulger» (La morte di Fulger) una tale perfezione di ispirazione e di forma da farne due veri capolavori del genere epico-lirico, in cui soprattutto eccelle, animati da una filosofia, ch’è poi quella del contadino romeno, ma passata attraverso una mente che ha saputo darle l’espressione teorica, per cui conclude che bisogna accettare il dolore e la morte senza inutile piagnistei, con rasse-