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architettura. In un angolo del cortile s’innalzava un comignolo alto quanto un obelisco che alla base s’allargava in forma di un immenso imbuto rovesciato che s’innestava su di una specie di cupola che ricopriva tutto l’edifizio. Nel mezzo, sotto l’apertura del camino, si apriva il focolare di due pertiche di lunghezza, in cui ardevano tronchi interi di querce e di faggi così come venivano dal bosco senza che fossero tagliati a pezzi e neppure spaccati per metà, nella cui brace un bove si metteva ad arrostire intero infilato in uno spiedo gigantesco. Tutt’all’intorno tavole, sgabelli e focolari minori, attorno ai quali s’accalcava una folla di grandi e di piccoli d’ogni età e di ogni mestiere. All’infuori del cuoco principale, se n’erano altri sei o sette coadiuvati da otto, nove e fin dieci sguatteri e ciascuno cucinava per le persone cui era addetto. La mensa e le vivande del «boiero» eran diverse da quelle dei servi, quelle delle cameriere diverse dalle vivande che si preparavano per le altre donne di servizio di grado inferiore e similmente diverso era il vitto dei segretarii. I figli del «boiero» se avevan ricevuto il «caftàn» (segno della nobiltà), o servivano come paggi alla corte del Voda, o, quando restavan nella casa paterna, avevan diritto ciascuno al loro cocchiere, al loro cameriere, ai loro cavalli di parata, da tiro, e al loro calesse. Ogni figliuola del «boiero» aveva la sua cucitrice e due o tre zingare per aiutarla all’opra dei telai ed all’allevamento dei bachi da seta. Ogni segretario aveva a’ suoi ordini uno zingaro che l’aiutava a vestirsi, gli versava nella catinella l’acqua per lavarsi, gli spazzava la stanza e gli accendeva il fuoco nella stufa di mattoni. Il Vornic Niculae Dudescu capo di questa piccola corte, mandato dal Voda a Parigi a perorar la causa dei Romeni, seppe attirar su di sè l’attenzione del Bonaparte e apparve ai francesi generoso, liberale, e pieno di dignità. Non di rado ebbe alla sua tavola il Primo Console e generali della Repubblica; nè Madame Récamier si levò mai dalla mensa senza trovar sotto il tovagliuolo un diamante o un rubino.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Arriviamo così a Barbu Delavrancea (1858-1918), novelliere, drammaturgo, oratore ed uomo politico, che fu uno dei pochi romeni che alla cultura francese aggiungesse quella italiana (1), il cui influsso dà alla sua opera di scrittore una particolar fisionomia. Tra le sue novelle, «Sultănica» ed «Hagi Tudose» son tra le migliori della letteratura romena.

Ma forse il Delavrancea è ancora più importante come drammaturgo. La sua trilogia drammatica «Apus de soare» (Tramonto), «Viforul» (La tormenta) e «Luceafărul» (La stella del mattino), benché risenta del doppio influsso: shakespeariano e dannunziano, o forse appunto per questo, rappresenta qualcosa di nuovo e di ardito nella letteratura drammatica romena, che, fino ad allora, non si era innalzata a voli troppo arditi e si era

  1. Nel 1907 commemorò con una nobile orazione Giosuè Carducci.