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la «poveste», l’antica leggenda che viene dall’Indostan, attraverso l’estensione medievale del mondo bizantino, la leggenda che fa sollevare sui cubiti i fanciulli mezzo addormentati che sognano ora ad occhi aperti, si racconta la «snoava», l’aneddoto giocoso che mette sui volti un ultimo bagliore di letizia.

Ma non si canta. Il canto accompagna soprattutto il lavoro, lo stimola, lo nutre, lo rallegra. Il pastore veglia sotto la luce silenziosa degli astri. Canta non per se stesso, ma per la fanciulla amata, che capirà forse, udendo nel villaggio il suono lontano e mesto del «cavalu», per chi soffra quel cuore solitario, lassù nella «stana». Le fanciulle tornano dal lavoro. Per rinfrancar le forze esauste, ma più ancora per dare un’espressione musicale alla gioia di chi si è guadagnato il pane della sera, cominciano a cantare in coro con tale un entusiasmo e una tale tristezza, che la natura stessa sembra versar nelle poche note del loro canto la gioia d’aver dato e il dolore di restar nuda nel crudo inverno imminente. Solo dinanzi alla immensità oscura della notte, il soldato che forse vive il suo ultimo giorno concentra tutti i suoi ricordi e tutte le sue speranze più care in un grido di anelante armonia, che sembra cercar lontano quanto visse o vive ancora per lui dagli avi nelle tombe al bambino nella culla: antichi ritmi tracici, dacici, che si cantavano in tempi remoti nelle feste di deità ora morte nel cielo, ma vive ancora nelle profonde latebre dell’anima romena.

Giacché l’Olimpo pagano (e quello barbaro) colle sue cerimonie, i suoi riti, le sue festività, le sue superstizioni, non s’è dileguato nè si dileguerà mai dai riti e dai canti popolari, finché sarà viva l’anima romena. A codesti riti un nuovo elemento fu senza dubbio aggiunto dalla conquista romana co’ suoi coloni fatti venire da tutte le provincie dell’Impero ed anche — soprattutto — da quei contadini italici, che, sotto la repubblica già dominatrice di genti, o sotto l’impero mondiale dei Cesari, abbandonavan le loro terre usurpate dal lusso trionfante per ritrovar nelle vallate balcaniche gli antichi Dei de’ loro padri, fuggiti nella loro ingenuità indigena e primitiva, davanti all’invasione di concorrenti venuti dalla Grecia filosofica o dal mistico, selvaggio oriente.

...Antico per esempio è quel «coro», quella danza del popolo che porta ancora il nome greco di «hora». I corpi non si legano, non si stringono, ma nel ritmo leggiero e saltellante interrotto soltanto nei momenti di più energica accentuazione, dal piede che batte la terra e pare attingere da essa nuova energia; le mani toccano le spalle vicine o s’intrecciano per render più largo il cerchio dei danzatori. Altre voci suonano allora accanto a quelle dei musici di professione, che, nel mezzo del mobile cerchio, continuano sulle viole inebbriate la melodia eccitatrice. Grida scherzose interrompono la musica, motti originali, individuali, sempre nuovi, che suonano a un tempo critica giocosa, mordente ironia, pura e sana gioia di vivere, di espandersi, di amare, di trionfare.

Nella casetta rustica un morto ha iniziato la solennità del suo riposo. Adorna de’ suoi abiti da festa, la salma s’erge tra i ceri che rischiarano la strada invisibile d’un mondo anch’esso invisibile e sconosciuto. I parenti han gridato dapprima con disperazione il loro dolore, l’han pianto più tardi con discrezione. Quando il feretro scenderà nella terra nera, donne avvezze a improvvisare faran risonare un’ultima volta l’amara sofferenza di chi non vedrà più le note, dolci sembianze del volto amato. Ma in quest’ora notturna il contrasto su cui riposa il mondo, e che ha messo il demonio che ride