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era riuscito a raccogliere un mucchio di pergamene di un’importanza talora di molto superiore allo scopo per cui le aveva raccolte.

A poco a poco la casa di Târgoviște si era trasformata in una specie di museo. S’era procurato delle copie ad olio delle iscrizioni votive di tutte le chiese della provincia; dell’iscrizione e dei ritratti dei fondatori della chiesa «Stolnicu» di Târgoviște costruita solo in legno prima del seicento dallo Stolnic Stoica Udrescu; dell’iscrizione e dei ritratti dei fondatori della chiesa Petrești-Quarantacroci innalzata anch’essa da un Udrescu; e per di più possedeva un fascio di documenti in ciascuno dei quali, dopo la formula di rito: «ed ecco anche i testimoni che la mia Signoria produce», accanto ai nomi del Comis Mihalcea e del Jupân Costandache, si leggeva a chiare note quello del Jupân Udrescu. Se non che veder un uomo che passa tutta la vita a frugare tutto il santo giorno in uno scrigno pieno di pergamene, a leggere e copiare epigrafi, è cosa tanto fuor dell’ordinario, da finir col dare ai nervi anche ai santi; c perciò la gente gli aveva appioppato quel nomignolo.

Ma, all’infuori di codesta sua innocente mania, raro davvero imbattersi in un galantuomo della forza di Conu Costache e in un cervello più a posto del suo: bastava, per convincersene, dare uno sguardo alle sue terre: una vera meraviglia!

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Il matrimonio di Conu Costache colla nipote di un ex-aiutante di campo del Voda, educata a Bucarest, immancabile ai ricevimenti di Corte e andata ora a finire a Târgoviște, parve in sulle prime che fosse un matrimonio riuscito. La bellezza della giovine sposa, i suoi modi alteri, la famiglia dalla quale discendeva avevano imposto alla gente del paese e Conu Costache da parte sua aveva aperto i suoi saloni ai notabili della città e con feste di cui gli abitanti di Târgoviște serbano ancora il ricordo, aveva fatto del suo meglio perchè la moglie dimenticasse di non trovarsi più a Bucarest. I dissensi cominciarono quattro o cinque anni dopo. C’erano in quella casa troppe cose di valore inestimabile per Conu Costache e per sua sorella, straniere e prive del menomo interesse per Sascinca: troppe cose care a quei due e odiose per lei: i mobili di casa, le posate, la carrozza, i finimenti dei cavalli, tutto, persino l’aria familiare dei servi: di Smaranda la cuoca, di Pârvu il cocchiere, di Iordache il cameriere...

Si dette poi il caso che l’insperata scoperta di giacimenti di carbon fossile e di pozzi di petrolio nei dintorni di Târgoviște facesse di giorno in giorno montar su dal nulla gente che non possedeva nè le pergamene di Conu Costache, nè alcun aiutante in famiglia.

...Conu Costache, tutto immerso nell’amministrazione della sua tenuta e nelle sue ricerche araldiche, privo di qualsiasi ambizione e non inclinato alla politica, aveva potuto guardare tutti questi cambiamenti con occhio sereno e indifferente. Non così Sascinca, che, in ogni villano che si tirasse su dal nulla, vedeva una diminutio capitis della sua famiglia e della sua classe. Stava perciò sempre alle costole del marito perchè affittasse la tenuta e si cacciasse anche lui nella politica. Ma lui, Conu Costache, reagiva: non certo opponendo i suoi strilli a quelli della moglie, ma con dolcezza, secondo il suo temperamento:

— «Non son nato io per cacciarmi in questo pandemonio, piccina mia!». Così la chiamava lui: «piccina», malgrado fosse più alta di lui di una spanna.

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