Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/147

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Si era in tempo di elezioni ed era stato eletto deputato Ionescu, il figlio di Iancu Polentina. Tutta la citta rintronava di «evviva!» e di «abbasso!».

Proprio in questi giorni, Conu Costache aveva avuto la fortuna di scovar nella casa di un contadino di montagna un documento del 1656 contenente una sentenza pronunciata da un certo numero di boieri, fra cui era anche un «Jupân Radu biv-vel-logofăt Udrescu». Nella sua stanza, le cui finestre davan sul giardino, con una lente d’ingrandimento nella destra e un foglio di carta nella sinistra, il vecchio delibava parola per parola il contenuto del documento:

«1656 Marzo 25, noi boieri giudici Jupân Preda Brâncoveanu biv-vel-Dvornic, Jupân Preda Bucsanul biv-vel-Logofăt, & Jupân Radu biv-vel-Logofăt Udrescul, & Papu vornic & clucer, & Manole vel-postelnic, abbiamo rilasciato questo nostro diploma al reverendo padre Irimie ot Staia prete ot Târgoviște ed a’ suoi figliuoli, perchè si sappia che ai tempi di Matei-Voivod, che Dio Rabbia in pace, Hagi Constantin Zalariul ha chiesto alla Maestà Sua un braccio d’acqua nel prato dell’artiglieria e si è ivi fabbricato un mulino...».

Ma proprio col fragore dell’acqua d’un mulino sgorgano all’improvviso le parole dalla bocca di Sascinca, che, entrata come un turbine nella stanza, indignata nel più profondo dell’anima per l’elezione che la città festeggiava, strillava così forte che gli strilli si sentivan fin nella strada attraverso ia finestra aperta. Non voglio ripeter tutte le ingiurie che gridò a Conu Costache sua moglie perchè era stato eletto il figlio di Polentina.

— ...Subito doveva affittar la tenuta e mandare al diavolo i suoi «scartafacci», altrimenti ella se ne sarebbe andata...

Non si aspettava la risposta categorica che le dette:

— Mai, dovessi morire, mai abbandonerò nelle mani di un fittavolo qualsiasi la tenuta de’ miei avi. Ognuno col suo mestiere!

E quando lei si slanciò a strappar le vecchie pergamene ingiallite che gli stavan davanti sul tavolino, divenne anche lui giallo come quelle, balzò in piedi e gridò: — Piccina! — con un aggrottar di sopracciglia e con una severità che le fecero cader di mano le pergamene, dopo di che uscì rigida, fredda e altera, sfiorando appena la povera Cucoana Luxizza che se ne stava impietrita sulla soglia.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Mihail Sadoveanu (n. 1888) ci appare invece come un fiume dalle acque abbondanti, ma calme e serene, che rispecchiano azzurro di cieli e verde di boschi. Romanziere fecondissimo, interprete perfetto dell’anima popolare moldava, così spontanea e primitiva da confondersi quasi col paesaggio, sembra impersonare, così nella sua prosa come nella sua figura massiccia e bonaria di gigante mite e sognatore, il tipo del patriarca primitivo, cantore eponimo della sua terra e della sua razza. I suoi romanzi storici, pieni di vigore e di colore, son gustatissimi dai Romeni. A me sembrano inferiori a quelli d’ambiente. Finche il Sadoveanu ci parla di contadini, pastori, cacciatori, briganti, piccoli proprietarii di campagna, piloti di zattere sulle acque spumanti