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Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/190

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ELEGIA

di Ion Pillat

Se mai morrò lontano dalla città
nel solco nero dell’aratro, nel campo mio
lasciatemi giacer supino, nudo
con una ghianda di quercia in mano...

E la mia forma d’argilla che non seppe
esser l’anima di un tempio
dissolverà l’inutile suo compito
nel seno della terra accoglitrice.

Ma la ghianda germinerà. D’anno in anno
sempre più fonde cresceran le radici
e da me uscirà un albero
dai giovani rami protesi verso il sole.

Ciò cui non giunsi con mille poesie
ecco otterrà una frasca tesa al sole
facendo tremolar l’ombra sua fresca
sul riposo delle greggi che verranno...

(Trad. di Ramiro Ortiz).


OVIDIO

di Ion Pillat

La prima stella occhieggiò all’orizzonte. Il vento
soffiò tra i canneti con ala d’uccello palustre,
poi ristette. S’udì all’improvviso
muggir lontano l’onda del mare
salendo sempre dalla parte della costa.
Quando lo vidi venir lento e solo
colla testa china, un po’ com’uno
che da molti anni discorre col deserto,
m’allegrai, che da molto atteso avea l’incontro.
Attraverso gli stagni in cui tristi giuncheti
sospiran lungamente con voce umana
l’intero giorno cacciato avea e, col fucile
sull’omero, verso la città tornavo
che Tomi fu una volta ed oggi è altra.
Per la pianura riarsa dall’autunno
sapevo che sarebbe venuto l’atteso
poeta, che, oltre la morte, piange il suo dolore.
Ma gli occhi suoi, vecchi di tanti secoli,
non mi videro. Sotto le lor bianche ciglia
guardavan fissi verso la sponda, dove nella notte
chiara s’udia la nettunia voce del mare.