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sciupate in quella tal prosa i versi più squisiti e le più tenere strofette che sieno mai uscite dalla penna del più dolce fra i poeti d’Italia; sarà perchè assai meno delle altre si scosta dal testo; a me questa traduzione di Budai-Deleanu par la sola, dalla quale il Metastasio non esca malconcio, come è certo la sola che si proponga un alto fine artistico da conseguire. Compiacciamocene col vecchio boiaro che la lingua italiana conosceva a menadito e alla letteratura italiana più d’una volta s’ispirò, e riprendiamo il cammino che abbiam interrotto, per trattenerci (forse più del dovere) nella sua gioviale compagnia1.



  1. Che cosa avesse dal Metastasio tradotto Stefan Crișan (Körösi) non sappiamo. La notiziola citata da Vasile Pop nella sua prefazione al Salterio in versi del Pralea non ci apprende se non che „acésta multe au tradus din Metastasie”, e, del resto, anche per ciò che riguarda la vita di questo letterato rumeno del Settecento, se non è buio pesto, poco ci manca. Il Iorga stesso confessa nella sua Istoria literaturii românești in secolul al XVIII-lea (II, 297), che non ne sappiamo nulla, all’infuori di quanto ce ne dice il Cipariu (Principia, p. 317 e segg.): che, cioè, insegnò nei collegi riformati di Cluj e di Mureș-Oșorheiu in Transilvania, e che non era più in vita il 1820, quando Asachi, recatosi in Transilvania per reclutarvi professori per il seminario di Socola, potè acquistar dalla vedova di lui un manoscritto, ch’è ora alla Biblioteca di Iassy (n. 27) e fu studiato (in Revista critica-literară, IV, 33 sgg.) da Aron Densușianu. Una poesia rumeno-italiana (scritta cioè in rumeno italianizzato) riproduce a fronte coll’originale italiano il Vater a p. 407 del vol. IV delle sue: Proben deutscher Volksmundarten (Leipzig, 1817). Eccola:

    Voi ochi, muritore stele,
    Miniștri perirei mele,
    Și’n somno ànche m’aretați
    Che murire mi optați;
    Inchiși de mi ucideți,
    Deschiși, voi ce nu puteți?

    Voi occhi, stelle mortali
    Ministre dei miei mali,
    Ch’in sogno ancor mostrate
    Che mio morir bramate;
    Se chiusi m’ocideti (sic)
    Aperti, che non farete?

    Questo medesimo madrigale italiano, il cui autore non mi è riuscito di trovare, è imitato da Iancu Văcărescu nella seguente poesiola:

    Ochi! când închiși mă prăpădiți,
    Deschișì oar ce mi-ațì face?
    Deschide-vă-ți și mă sfârșiți !
    C’astfel să pier îmi place!

    (Poeziile Văcăreștilor in Bibl. Românească Enciclopedică Socec (N. 2), București, 1908). — Cfr. inoltre L. Șăineanu, Istoria filologiei române, già citata, p. 28.

R. Ortiz 18