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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/103

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E volto à lui col viso humile, e chino,
     Gli dissi in atto honesto, e riverente,
     Porgi favore ò spirto almo, e divino
     À la nostra divota, e buona mente,
     E fa, ch’ à salvamento il nostro pino
     Ci guidi à riveder la nostra gente,
     Et à costor perdona, che t’han preso,
     Se non ti conoscendo, t’hanno offeso.

Prega Acete, per te quanto tu vuoi,
     Mi disse un, ch’era Ditti nominato,
     Ne ti curar di pregar più per noi,
     Che già quel, che vogliamo, habbiam pensato.
     Di questo huom’ non fu mai, ne sarà poi
     Più destro, più veloce, e più lodato
     Nel gir sopra l’antenna in sù la cima,
     Ó calar per la corda, ov’era prima.

Questo Libi approvò, questo Melanto,
     Il medesmo conferma Alcimedonte.
     E da me in fuora, il resto tutto quanto
     Hà il pensier volto à le bellezze conte.
     Gli prese in modo quel bel viso santo,
     Gli occhi lucenti, e la benigna fronte,
     Gli accese tanto quel divin splendore,
     Ch’arser di lui di dishonesto amore.

Io, cui cosa parea profana, et empia,
     Dissi, non soffrirò, che in questa Nave,
     Dov’ ho la maggior parte, mai s’adempia
     Questo cieco desio, che presi v’have.
     Et ecco mi percote in questa tempia
     Un pugno, di cui mai non fu il più grave,
     Mentre m’oppongo, e cerco con mio danno
     D’ involar quel fanciullo al loro inganno.

Colui, ch’alzò ver me l’audace palma
     Havea prima in Etruria alzato il braccio
     Contra un col ferro, e gli havea tolta l’alma,
     E n’era stato condennato al laccio;
     Ma non pendè la sua terrena salma
     Per gravar i miei guai d’un’ altro impaccio,
     Fuggì da birri à me sopra il mio legno,
     Et io ’l condussi meco al Lidio regno.

Quell’empia turba tutta in un concorre
     C’hebbe il Toscan ragione, e che fe bene,
     Ch’ io vo sopra di me quel peso torre,
     Ch’ à patto alcuno à me non si conviene.
     In quel romor par, che si senta sciorre
     Dal sonno il bel garzon, ch’oppresso il tiene,
     Che fin’ allhora addormentato, e lento
     S’era mostro stordito, e sonnolento.

E con piacevol viso à noi rivolto,
     Che romor (disse) è questo, che voi fate?
     Chi m’ ha dal luogo, ov’ io mi stava, tolto ?
     Chi qui condotto? à che camino andate ?
     Non dubitar con simulato volto
     Gli disser quelle genti scelerate,
     Dì pur dove vuoi gir, prendi conforto,
     Che per gradirti prenderem quel porto.

A l’isola di Nasso andar vorrei
     Disse egli, ove è la patria, e ’l regno mio.
     Giuran quei traditor per tutti i Dei,
     Che daran tosto effetto al suo desio.
     Sapendo i lor pensier malvagi, e rei,
     Di no ’l voler soffrir penso allhor’ io,
     Ma di quel pugno intanto mi ricordo,
     E fa, che resti anch’ io con lor d’accordo.

Io già per gire à Nasso havea voltato
     À quel camin la scelerata proda,
     E con vento men già soave, e grato;
     Ma Ofelte intento à la biasmevol froda,
     Mi dice, ch’ io mi volga à l’altro lato,
     Non sì forte però, che’l garzon l’oda.
     Bisbiglia altri à l’orecchia, altri m’accenna,
     Ch’ io volga altrove la bugiarda antenna.

Io, che veggo l’infame intentione,
     Ch’ ingombra lor la vitiosa mente,
     E tutti haver l’ istessa opinione
     Verso il fanciullo credulo, e innocente,
     Mi lievo da la guardia del timone
     Contra il voler di tutta l’altra gente.
     Non piaccia à Dio, diss’io, ma ’l dissi piano,
     Ch’à sì nefando vitio io tenga mano.